venerdì 30 novembre 2012

Friday boulevard: the best of the week

Avete già impacchettato i regali? Fatto l'albero? Comprato l'ultimo pastorello per il presepe?

Tranquilli, niente panico. Mollate sciarpa e cappotto e riaccomodatevi. Volevamo solo vedere se eravate attenti. Siamo ancora all'ultimo di novembre, quindi rilassatevi.


Sappiamo che molti di voi (tra cui la sottoscritta) attendevano dicembre per gustarsi, finalmente, Lo hobbit, e in effetti ormai manca poco: l'ultima fatica di Peter Jackson è stata annunciata per il 14 del prossimo mese, dopo innumerevoli rinvii. Di recente, tanto per ingannare l'attesa, è stata lanciata una serie di trailer, dedicati ognuno ad un personaggio del film. 
Sul versante cinema, segnaliamo due uscite da tenere sott'occhio: la prima, Wild - Una storia selvaggia di avventura e rinascita, è un film prodotto e interpretato dalla bella Resee Whiterspoon, già vista in Una bionda in carriera e La fiera delle venità, ed è tratto dal romanzo autobiografico di Charyl Strayed. La scrittrice e protagonista intraprende un viaggio attraverso l’America più selvaggia ed estrema, che rimanda alle atmosfere di Into the wild, la pluripremiata pellicola di Sean Penn. La seconda novità è Beautiful Creatures, tradotto in Italia come La sedicesima luna, adattamento cinematografico del romanzo omonimo, prima fatica di Kami Garcia & Margaret Stohl, autori di questa nuova saga fantasy, con protagonisti due adolescenti alle prese con un mondo strano e bizzarro che fa capolino da un’anonima cittadina di provincia.

Per quanto riguarda gli appuntamenti, segnaliamo la mostra sui grandi maestri moderni e contemporanei, che si terrà a Firenze da domani fino al 30 marzo. Tra alcuni nomi ospitati, Picasso, Fontana, Mirò, Boccioni, Pomodoro. Per chi si trova oltreoceano per salutare il nuovo anno, e anche per i gamer indefessi rimasti in patria, annunciamo che il MoMa ha aggiunto alle sue collezioni una serie di 14 videogiochi: non mancano i sempiterni Tetris e Pac-man, ma sono da notare anche uscite recenti, quali Portal e EVE online. In molti già si chiedono se è corretto definire e annoverare i videogame come opere d'arte, ma per questo vi rimandiamo all'articolo.

Da Citerna (Umbria) , tornando in Italia, giunge la notizia del ritrovamento e del restauro di ben due Madonne col Bambino, una targata Luca della Robbia il Giovane, l'altra Donatello.
A Milano, intanto, notiamo un fiorire di iniziative, itinerari e incontri sull'educazione all'ascolto musicale

Sul versante saggistica, annoveriamo l'interessante Nell'acquario di Facebook, del collettivo Ippolita, che tratta dell'ascesa dell'anarco-capitalismo nel panorama globale in cui il celebre social network ha un ruolo preponderante. 

In chiusura, vi rimandiamo al nuovo singolo dei Rolling Stones, Doom and Gloom, uno dei due inediti della compilation GRRR! , uscita il 9 novembre.

Buon ascolto e a venerdì prossimo!















mercoledì 28 novembre 2012

SettimArte: Terry Gilliam - Tideland


Titolo: Tideland – Il mondo capovolto
Regia: Terry Gilliam
Anno: 2005
Paese: Canada/G.B.
Sceneggiatura: Tony Grisou, Terry Gilliam
Produzione: Gabriella Martinelli, Jeremy Thomas
Con: Jodell Ferland (Jeliza-Rose) , Jeff Bridges (Noah) , Brendan Fletcher (Dickens) , Janet McTeer (Dell)


Terry Gilliam, fuoriuscito dei Monty Python, mette in scena quella che potrebbe sembrare l’ennesima versione dell’Alice di Carroll.
Una bambina, fresca orfana di madre, viene portata dal padre, un rocker evidentemente fallito, nella sua casa d’infanzia, vecchia e malridotta. La piccola Jeliza-Rose, fantasiosa ventriloqua, vive del tutto immersa nel suo mondo immaginario, i pochi contatti con la realtà si perdono al momento del trasferimento in campagna e definitivamente, poi, con la morte del padre. La bambina pare non accorgersene e continua a tenere il cadavere del padre seduto in poltrona, curandolo e nutrendolo.
Ovviamente qui entrano necessariamente in gioco altri personaggi: Dickens, un ragazzo affetto da epilessia e vittima di lobotomia (oltre che di abusi sessuali, vedremo) e Dell, allucinata strega del posto, che vive rintanata in casa, per paura del sole e delle api. Oltre ai due bizzarri e inquietanti personaggi, la piccola ha per amiche tutte una serie di teste di Barbie, con cui parla e si confida.
La trama è tutta una successione di eventi ai limiti dell’assurdo, situazioni da incubo o da sogno, a seconda dei casi: scoiattoli parlanti, treni-squalo, addirittura la mummificazione di un cadavere. I tre personaggi, col morto, sono completamente distaccati dalla realtà. Neanche un disastro ferroviario, avvenuto, tra l’altro, a causa loro, li riesce a distogliere. La bambina, persa e ritrovata, come nella migliore tradizione, sembra ritrovare una fata madrina che sembra accoglierla proprio nel finale.


Questo non vuol dire però che sia un happy ending: Jeliza-Rose non sembra rinunciare ai suoi sogni d’infanzia, come si desume dall’ultima battuta (“Sono amiche mie, hanno anche dei nomi” , riferendosi alle lucciole) .

Il film sembra una classica favola nera nella sua struttura ellittica, con questo susseguirsi di immagini se vogliamo tipiche del sogno, irreali: la voce di una bambina nell’incipit legge Alice nel Paese delle Meraviglie (ancora non parte il visivo) , ora la stessa piccola è visualizzata nell’ombra di uno scuolabus rovesciato, mentre parla con le lucciole: per lei sono fate, lo si desume dai modi in cui le chiama (Titania, per fare un esempio) , una canzone con il suo nome, sapremo che è lo stralunato omaggio che il padre le ha dedicato. Ed ecco, il padre, un affollato concerto rock, un non più non giovane artista sul palco e poi nella sua fatiscente dimora, con moglie e figlia. A seguito del viaggio in autobus entriamo in un altro mondo, per riemergerne solo alla fine, in maniera speculare, ellittica appunto, con il drammatico ritorno al reale rappresentato dal deragliamento del treno. Sul finire tornano le fate, il cielo stellato e con i piccoli occhi luminosi di Jeliza-Rose in sovrimpressione termina la visione.

Non esistono veri e propri dialoghi, bensì una serie di monologhi incrociati: ognuno pensa a sé, al suo mondo, e la situazione diventa a dir poco allucinante nella casa in campagna. Non che prima le cose fossero migliori: emblematica la scena della madre che, dopo aver coperto d’insulti la piccola, le chiede di farle dei massaggi e qui esonda in una esagerata e lisergica dimostrazione d’affetto (“Prima o poi farò qualcosa di davvero bello per te”) condita di smancerie e luoghi comuni (che la fanno da padrone per tutta la durata della pellicola) finchè scopre che la manina della piccola è tesa ad afferrare una barretta di cioccolato, e torna quindi a bestemmiare. Molto Courtney Love e Duchessa carrolliana, sempre pronta a sbatacchiare il suo piccolo da un lato all’altro della stanza al minimo accenno di pianto. Il trucco sfatto della madre e le ombre sul suo viso accentuano il distacco: non c’è nessuna differenza tra lei e il suo cadavere, bruciato in una pira, in un momento tragicomico e caustico.
Noah, il padre, non è da meno, del tutto immerso nei suoi viaggi, reali o iniettati, e si occupa della piccola solo a voce. Anche qui non pare esserci molta differenza tra lui vivo o morto, la bimba sembra cavarsela egregiamente da sola.

La piccola Alice del film, che scopriamo, stupiti, straordinariamente avvezza all’uso di siringhe e “cosini” (come lei chiama il ciondolo dalla forma fallica che le presenta Dickens) , ci tiene col fiato sospeso fino alla fine. Troppi lati oscuri da scoprire, troppo complessa la figura di questa minuscola donna, troppo cresciuta, ma giustificata dal fatto che lei il suo mondo immaginario l’ha dovuto costruire di necessità. Il suo era fatto di morti e sporcizia, di figure troppo grandi per lei, di ombre troppo paurose per una bambina.
Anche il nome della sua testa di Barbie preferita è tutto un programma: Miss Take, che potrebbe leggersi anche “mistake” , sbaglio. E non è un errore trovarsi lì, in un mondo che non le appartiene? Ripensiamo anche alla frase che troppi genitori sciagurati ripetono ai propri figli “sei solo uno sbaglio” . Le riprese di traverso, che troviamo specialmente nei campi lunghi e lunghissimi, suggeriscono bene l’idea: per vedere bene in questa pazza porzione di terra dobbiamo osservare le cose da un’ottica distorta, come i personaggi.

Dickens si pone in essere come il perfetto compagni di giochi della piccola, anche se sul finale abbiamo temuto la scena di un suo abuso nei confronti dell’amichetta. Rappresenta probabilmente la possibile proiezione futura della bambina: sui corpi dei due, i segni di un’infanzia negata. Per lui però, i sogni non sono fatati e ingenui, ma diversi e pericolosi: il suo nemico, uno squalo, è in realtà un treno carico di passeggeri, che sarà lui stesso a far deragliare, provocando la strage finale. Sul luogo del delitto, lo vediamo muoversi come un fantasma, seguito dalla camera in panoramica insieme ai feriti, perseguendo però un destino diverso, perso nell’oscurità illuminata solo dall’incendio da lui stesso provocato. I rimandi al capitano Achab sono evidenti e non solo per i suoi sogni marinareschi: anche lui, come il tetro capitano, ha perduto una parte del corpo nello scontro con un essere più grande di lui, nel suo caso l’epilessia, la sua balena bianca, che continua beffardamente a tormentarlo.


L’enigmatica Dell, la reclusa viva, è la figura più sconcertante ed enigmatica del film. Ossessionata dalla morte della madre e dalla sua disgrazia personale (l’occhio) , che lei stessa si è provocata, ha solamente anticipato il disastro combinato da Dickens. Particolarmente pregnante è la scena dell’incontro con Jeliza-Rose: cielo azzurro e campo di grano, e lei che rompe quell’idilliaco paesaggio con la sua figura di dama in nero, orribile megera accecata per metà, controluce, e contro la luce. La scena non può non ricordare l’incontro di Edipo con l’Oracolo di Delfi di pasoliniana memoria. E se non è propriamente un oracolo, Dell ha comunque tutte le caratteristiche per assomigliargli, con il suo look strambo, le sue frasi senza senso, la sua aria minacciosa. Assistiamo a ben due mummificazioni da lei operate, su sua madre e sul padre di Jeliza-Rose, con cui tra l’altro non è ben chiaro il rapporto. Il tema della conservazione in morte è un’altra costante: anche Noah aveva parlato di “cadaveri vecchi di 2000 anni” , augurandosi di fare la stessa fine.
La piccola invece non sembra dello stesso avviso, anche se il suo continuare a occuparsi del padre da morto - con risvolti macabri che non riescono a essere, nonostante tutto, disgustosi, grazie alla freschezza e alla spontaneità della bambina – sembra dettato dal suo non voler accettare la realtà, per l’ennesima volta, almeno non correttamente (“Ma cos’è questa puzza?” si chiede a un certo punto, quando è chiaro che si tratta dell’odore della decomposizione) . Suggestive le sue immagini nel grano, in alternanza primi piani, anche controluce, dettagli sulle teste di Barbie, campi lunghi sul grano, in un’atmosfera di solarità, forse un po’ malsana, condita da qualche ombra: azzeccatissima quella sul viso della bambina mentre parla con Dell sulla mummia del padre, il faccino fresco è rabbuiato da un’ombra persistente, fastidiosa, a significare la minacciosa presenza della strega, ma anche a mettere in dubbio l’innocenza della piccola.

Stupendo come tutto venga ombreggiato con una tranquillità disarmante, lenti movimenti di camera a seguire, anche nelle situazioni più outrageous (il termine inglese rende molto meglio il senso di oltraggioso, oltre ogni aspettativa) , la decomposizione del cadavere di Noah, il rapporto sessuale tra Dell e un malcapitato fattorino. Quest’ultima è una delle scene più divertenti, interessante anche dal punto di vista filmico, con l’approdo alla situazione dal sogno di Jeliza-Rose; bello anche il dettagli in contro-plongée della mano del ragazzo, terrorizzato, che afferra la cassetta.

Anche le due scene del tè-con-morto, trasmesse per osmosi da Carroll, e del riassetto della casa, con Dell nella veste di una strampalata sacerdotessa. Lei, che aveva appena spiegato alla piccola che “non bastano una parrucca e un po’ di trucco” per mettere a posto le cose, predicando bene ma razzolando malissimo, comportandosi nell’esatto opposto mummificando i cadaveri e ridipingendo la casa, due operazioni che non servono a molto, se non a dare l’impressione che le cose si siano conservate, sistemate, messe a posto. Basta qualche scena a rendere la realtà dei fatti, e la casa, che subito dopo la messa a nuovo sembrava più solare,  ora, di notte, col bianco delle pareti a sottolineare ombre ancora più scure di prima, da paura, rendendo appieno l’atmosfera di quel covo di confusione e ambiguità.

E se questi sentimenti sono quelli che aleggiano per tutta la pellicola, possiamo solo sperare che Jeliza-Rose trovi una via di scampo da quel mondo. La sconosciuta passeggera del treno che nel finale si prende cura della piccola, però, così miracolosamente illesa, e stranamente sola, non riesce a essere rassicurante fino in fondo, ricordando quasi la misteriosa signora in bianco di Storie da leggere con la luce accesa, di Chris Priestley, di qualche anno più tardi, anche lei passeggera di un altro sfortunato treno, e che si rivela essere nient’altro che la Morte incarnata.

-R.

lunedì 26 novembre 2012

Pittore vs. Regista (pt.2): Francis Bacon incontra David Cronenberg

«Senza lo specchio della mente nessuno può vivere una vita umana
di fronte al sogno meccanizzato del nostro tempo» - Marshall McLuhan

L'uomo moderno vive di angosce, che si sono fatte strada prepotentemente con la caduta delle certezze del Novecento e che si sono evolute sempre di più nel corso della storia recente. Bisogna chiarire, prima di tutto, che a livello psicologico il termine “angoscia” è ben diverso da quella che comunemente viene chiamata “ansia”, infatti questa è, per paradossale che sembri, un'emozione positiva che avvertiva i nostri antenati l'arrivo di un cambiamento, e li preparava quindi ad affrontarli nel modo migliore possibile. L'angoscia invece è una vera e propria paura e, con tutti gli stereotipi ed i miti da cui siamo bombardati giornalmente, è facile vedere come essa dilaghi fra la popolazione (volendo essere banali, basta pensare all'importanza quasi malata che si dà all'aspetto fisico). L'arte, in tutti i suoi linguaggi, ha captato questa ansia dell'angoscia (perdonatemi il gioco di parole) e non ha fatto altro che analizzare questa situazione dell'uomo moderno e della sua condizione esistenziale a base di sesso, violenza e solitudine, per descriverla, trasmetterla o magari dare un semplice “campanello d'allarme”; esemplare in questo caso è stata la figura dell'artista irlandese Francis Bacon: dublinese di nascita, trapiantato a Londra, omosessuale e con una personalità al limite del “disturbi psichico”, egli rappresenta al meglio la corrente della “nuova figurazione” inglese, nata dalle ceneri del surrealismo con l'intento di analizzare la condizione dell'uomo contemporaneo, dilaniato dalla seconda guerra mondiale e ossessionato dal dopoguerra.

Dice egli stesso «Ho sempre sognato di dipingere il sorriso, ma non ci sono mai riuscito», un pronostico tanto tristo quanto veritiero: ossessionato dalla tematica della malattia, della mutilazione e del disfacimento della carne, le sue opere trasmettono dolore e paura in un “sublime negativo” che rende la figura di Francis Bacon affascinante.
L'uomo non è altro che un animale da macello, un pezzo di carne alla mercè di un mondo senza Dio e senza tregua, le deformazioni delle figure di Bacon non sono solo fisiche, ma riflettono l'anima lacerata e disfatta dell'uomo moderno: un esempio è la manipolazione del ritratto di Innocenzo X, partendo dall'opera “perfetta” del pittore spagnolo Velazquez, Bacon reinterpreta la figura traslandola però nel mondo moderno, poche linee sintetizzano il trono, il rosso della veste lascia il posto ad un angoscioso blu notte e decise pennellate verticali contribuiscono a rendere la scena più deformata ed allucinata, ma ciò che davvero spaventa è il volto del pontefice, dal colore grigiastro e con la bocca aperta in un grido che lo spettatore riesce quasi a percepire, un urlo che ricorda “l'urlo nero” della poesia di Quasimodo e quello della vecchia bambinaia del film “La Corazzata Potëmkin” di Ejzenstejn, sembra quasi di assistere al passaggio del testimone con Munch.
Francis Bacon - Studio su "Papa Innocenzo X"
Maestro assoluto della deformità, a testimonianza di questo basta guardare le sue terribili e truci crocefissioni: confrontandole con il tema iconografico classico c'è da notare come, negli scenari di Bacon non ci sia pietà né umanità, egli dipinge figure grige simili a statue, immerse in uno sfondo cremisi che rimanda al sangue e al dolore, le scene sembrano degne più di un mattatoio che di una crocefissione, corpi smembrati ed intorno esseri animaleschi. In effetti l'ottica del nuovo secolo è cambiata e il sacrificio del figlio di Dio non è più un gesto di pietà nei confronti dell'umanità, ma solo l'applicazione della legge del più forte, un sacrificio mediatico che nutrirà gli esseri mostruosi che popolano questo nuovo mondo. La formula della “crocefissione” verrà ripresa da Bacon nel suo “Donna che versa una ciotola d'acqua e bambino paralitico che cammina”, stesso sfondo cremisi, stesse figure smembrate che sembrano camminare su di un anello di ferro simile a quello dove si fanno esibire gli animali da circo, delle due figure non si riesce a cogliere nulla se non un mostruoso amalgamo di carne quasi indecifrabile e lontano da tutto ciò che è “umano”.

Francis Bacon -  “Donna che versa una ciotola d'acqua e bambino paralitico che cammina”
Una passione artistica per la malattia e la mutilazione come quella di Bacon crea quasi un arco voltaico con la produzione cinematografica di un grandissimo regista canadese, allievo del sociologo Marshall McLuhan che riprende sorprendente le stesse tematiche del pittore Irlandese: David Cronenberg.


Al centro della ricerca di Cronenberg vi è l'uomo (del resto egli stesso è solito definirsi un “filosofo esistenzialista”), animato dalle sue aspirazioni ma limitato dalle sue appendici patologiche ed animali, una visione del corpo tanto surreale che sembra proprio uscita da uno degli studi di Francis Bacon. In effetti il confronto ha dell'incredibile, osservando le scene di “Videodrome”, capolavoro assoluto di Cronenberg, sembra di assistere alla trasposizione cinematografica della poetica visiva di Bacon, mediata dagli insegnamenti di McLuhan: l'odissea di Max Renn, uomo assolutamente in balia dello strapotere dei mass-media (basta vedere l'angosciante “Chiesa del Tubo Catodico”) subisce nel suo lungo viaggio una serie di mutazioni che lo trasformeranno in “nuova carne”. Renn verrà prima “programmato” tramite l'inserimento di una videocassetta in una ferita pulsante posta all'altezza del suo stomaco, in seguito fonderà la sua mano con una pistola, diventando così una sorta di uomo macchina, prima di poter purificare il suo spirito suicidandosi urlando “Gloria e vita alla nuova carne, morte a Videodrome”. 




La pustola pulsante, aperta sull'addome del giovane uomo ricorda in maniera fin troppo evidente la figura della carcassa bovina smembrata presente in moltissimi quadri di Bacon, primo fra tutti il “Dipinto 1946” passando poi attraverso le varie “Crocefissioni” o sugli studi sull'opera di Velazquez, come per Bacon anche per Cronenberg il tema del disfacimento della carne è centrale, per entrambi la malformazione e la deformazione rappresentano il decadimento dell'animo umano. In “Videodrome” la triade del “sesso, violenza e solitudine” alla base della poetica di Bacon sembra ripresentarsi in una versione rivisitata e corretta proprio per lo strapotere della televisione (capace, secondo la trama del film, di trasmettere tumori al cervello allo spettatore), Max Renn è involontariamente protagonista di una “crocefissione mediatica” non molto distante da quelle dipinte da Bacon, una marionetta in balia di forze oscure più grandi di lui che lo porteranno al suicidio, rappresentato come un'esplosione di interiora unita ad una televisione esplosa (ennesimo esempio del connubio uomo-macchina).





Francis Bacon - Dipinto 1946
Il tema della metamorfosi della carne e della fusione fra l'uomo e la macchina è presente in un altro grande capolavoro di Cronenberg che è “La mosca – the fly”, storia di un brillante scienziato che ossessionato da una donna finisce per mescolare il suo dna con quello di una mosca, diventando un essere mostruoso che cerca di fondersi con la donna amata.

la drammatica sequenza finale di "The Fly"
Ancora una volta nella disperata e drammatica scena finale il richiamo alla pittura di Bacon è immediato: il corpo di Seth Brundle, protagonista della pellicola, subisce innumerevoli mutazioni, passando infine ad un mostruoso essere ibrido fra un umano ed una mosca, per poi diventare un orrendo ammasso di carne unito alla macchina da lui stesso realizzata, non molto distante dalle inquietanti figure di “Donna che versa una ciotola d'acqua e bambino paralitico che cammina”: il mostro con uno sguardo bovino colmo di disperazione indirizza, infine, la sua testa verso il fucile chiedendo così all'amata di porre fine alle sue sofferenze, in un urlo che rimanda a quello delle figure alla base della Crocefissione e in tutte le manipolazioni sul tema di Velazquez.

Francis Bacon - "Tre studi per figure alla base di una Crocefissione"
Nei film di Cronenberg l'amore per il potere creativo dell'uomo si scontra con l'angoscia nichilista e con i limiti del corpo umano, proprio come per Bacon la carne soffre dell'insorgenza naturale del dolore e della paura, il surrealismo cinematografico di Cronenberg rimanda in maniera stupefacente quel sublime al negativo che si ritrova nelle tele di Bacon: entrambi hanno avvertito l'ansia del nuovo mondo e di come l'uomo si senta ogni giorno più inadeguato alla vita moderna ed entrambi sono riusciti a codificare questo sentimento in opere che ci spaventano ma non potrebbero esserci più vicine di così.

                                                                                                                    - P.

mercoledì 21 novembre 2012

SettimArte: Nico Cirasola - Focaccia Blues


Regia: Nico Cirasola
Anno: 2009
Paese: Italia
Genere: docu-fiction
Sceneggiatura: Nico Cirasola, Alessia Lepore
Cast:  Dante Marmone, Tiziana Schiavarelli, Luca Cirasola, Renzo Arbore, Lino Banfi, Michele Placido, Nichi Vendola




Partiamo col riferire che il docu-fiction in oggetto è stato definito nei modi più disparati: cinema-realtà, frutto di intrighi politici e falsità giornalistiche, una campagna pubblicitaria ben celata, solo burla, un gioiello. Ai fini dell’analisi filmica questo interessa poco; non sono stati in pochi a pensare che se fosse vera, la storia, sarebbe un piccolo miracolo. Se fosse falsa non cambierebbe poi un granché, sarebbe solo da ritenersi un finto documentario. Doppiamente finto.
La storia, in ogni caso, ha un fondo di verità inoppugnabile: 2001, Altamura, Puglia, in un piccolo paese delle Murge viene aperto un gigantesco McDonald, costretto però a battere in ritirata quando una focacceria locale viene a sua volta aperta nei dintorni, riscuotendo più successo e giusta lode. Corredata, la storia, da una serie di interviste a personaggi del posto come a celebrità pugliesi, in veste di “testimoni” , viene a emergere tra loro innanzitutto la figura di Onofrio Pepe, che si reca a Chicago a girare un reportage sul luogo dove fu aperto il primo “Maccy” e, provocatoriamente, si mette in testa di esportare anche lì la famosa focaccia.
C’è sicuramente qualcuno che non la conosce: farina, lievito  olio, patate, sale e pomodorini freschi a condire. Sembra si sia scatenato il putiferio, e per questa semplice golosità? Sì, perché il regista, che ci ha abituato ai suoi toni epici, la configura  fin da subito come uno scontro epocale, purtroppo a finale prevedibile, se è vero che i buoni vincono sempre alla fine delle favole…Per la stessa ragione Dante (Dante Marmone) conquista l’amata signora Rosa (Tiziana Schiavarelli) , dopo essere tornato a casa con le pive nel sacco il giorno prima, già immaginando di essere stato surclassato dal bizzarro rivale, uno sgargiante Manuel (Luca Cirasola) .

Il film per l’appunto si svolge su tre filoni narrativi, che da spartire hanno poco: il primo, le interviste alla gente del posto (già preparate, ovviamente) , in toni ora rilassati e fiabeschi, alla Hemingway, ora più faceti e immediati, con risate che esplodono spontanee; il secondo, il reportage di Pepe da oltreoceano, un po’ il “continua alla prossima puntata….” dell’American dream che, se collocato in sequenza temporale cronologica con le altre opere del regista capiamo che si configura come la giusta conclusione al sillogismo implicito concepito da Cirasola; il terzo, la storia d’amore immancabile, classica, quasi muta, quindi mimica, in cui la scala cromatica e i giochi di riprese e montaggio la fanno da padrone, in un puro esercizio di regia.

E’ uno degli ospiti più famosi ad aprire l’opera, anzi a proiettarla, in un gioco di scatole cinesi, nella  penombra: Michele Placido, che come neanche il più navigato degli opinionisti di cinema, ci introduce alla visione raccontando le sue impressioni. Dopotutto è un pugliese anche lui, e ci tiene farlo sapere. Segue una ripresa quasi a cartoon sulle testate di mezzo mondo che parlano dell’episodio, ricollegandoci alla magniloquenza del regista, e poi si parte subito con la carrellata di ospiti, in una galleria di arti e mestieri del paese di Altamura, che viene dipinta come neanche fosse il crocevia dei record culinari a partire dal macellaio più anziano d’Italia, e proseguendo con lo stesso protagonista della vicenda, il panettiere Luca Di Gesù, che però non è messo in evidenza, è un testimone alla apri di tutti gli altri. E si capisce quindi subito che Cirasola ha scelto come primadonna Dante Marmone, nel filone più improbabile del film, ma di sicuro il migliore dal punto di vista puramente di cinematografia, come sul versante simbolico. Sarebbe troppo facile etichettarla come una storia d’amore tout court e poi i riferimenti alla vicenda principale sono tanti: dalla figura del’intruso (il Maccy) , alla donna nostrana abbondante e piaciona (la focaccia, che guarda caso lei prepara in un tripudio di voluttà non solo culinaria) , al nostro eroe che riesce a spuntarla nonostante l’”impareggiabile” concorrenza, anche se l’intruso sbeffeggiato in maniera oltremodo comica è uno dei punti forti della pellicola. Perfino i colori sono simili, quel giallo acceso delle collinette del MacDonald si rispecchiano infatti nella decapottabile di Manuel, quell’insegna cha va addirittura a fare ombra ai pomodori messi ad asciugare da Dante, pomodori che saranno quasi il suo doppelganger per tutta la visione. La nostra cara signora, che inizialmente cade nella stravagante spirale di seduzione dello straniero, si ricrede dopo averlo visto spostare schifato i pomodori della focaccia, e anche qui il simbolismo si spreca: è la società globalizzata che elimina quel fastidioso condimento, troppo sano, troppo povero. I rischi sono quelli che si vedono e che i testimoni del regista commentano, quelli di un appiattimento e di un omologazione inarrestabile, oltre che un ovvio impoverimento dei prodotti culinari e non solo. Il regista mostra di sapere fare anche l’avvocato del diavolo, portando tesi anche a favore della parte avversaria: mostra, perché le uniche note positive a favore del Maccy sono di un gruppo di anziani che lì trovava refrigerio, di una mamma che ci portava i bambini come neanche a un doposcuola, e di un gruppo di ragazzi che del ristorante faceva il suo punto di ritrovo. Ma non dimentichiamoci che il ristorante ha comunque una proprio tradizione: viene citato l’anno d’apertura del primo MAcDonald a Chicago, e forse è questa l’unica nota veramente positiva a favore, il far poggiare l’avversario su basi simili alle proprie, in questo caso la tradizione, in modo che il trionfo sia ancora più brillante
La si può leggere, infatti, come un’amara riflessione sullo scorrere del tempo che cancella ricordi e tradizioni, in favore del nuovo, che il regista felicemente riscrive in una favola giornalisticizzata, una difesa appassionata di buone novelle, corredata da giuste citazioni in forma di proverbio (“Abbiamo avuto tutto quello che ci serve per vivere meglio…basta sceglierlo”) , come la si può anche leggere come l’ennesimo omaggio del cineasta alla sua terra natia, con i suoi vicoli, le sue personalità, i suoi bambini, il suo dialetto. Una difesa scherzosa è ripresa dal duo comico Arbore-Banfi, che si sfidano a colpi di tegami nell’epico derby Foggia-Bari, con addosso improbabile grembiuli e tagliuzzando prelibatezza locali, mentre ne vengono decantate le proprietà: i vati della culinaria comica pugliese.


Non perdono neanche tempo a improvvisare una sigletta in stile blues, come infatti il titolo dell’opera recita. E difatti degli squisiti motivetti in stile si rincorrono per tutta la visione, sottolineando per contrasto la trama: il blues sembra entrarci poco nel contesto, ma ci rendiamo poi conto che i suoi suoni grezzi ma al contempo semplici e familiari come solo il blues sa esserlo, con gli immancabili tre accordi canonici, ci riportano a casa.
Nota particolare sulla scena del giornalista francese: come neanche nei più navigati dei thriller, alla sue spalle entra totalmente fuori luogo e fuori tempo, accentuando la sua idea di intruso, il famoso Manuel, sottolineato da un giro di contrabbasso quasi inquietante, come se neanche dovesse saltar su a pugnalare alle spalle il malcapitato. Difatti anche altrove la presenza dello straniero, di cui non è chiaro il perché e il percome si trovi lì e a che titolo, risulta quasi imbarazzante: lo vediamo in giro vestito con improbabile giacca sgargiante  ed espressione non troppo furba, mentre sfreccia per tratturi polverosi con la sua coupé di un giallo tremendo, full optional. Optional che, come nel caso del gps, puntualmente lo tradiscono.

Il regista non si risparmia e, caro alla sua personale tradizione, si compiace di questi piani lunghissimi sul paesaggio colorato, di queste panoramiche delle strade e dei tratturi, mentre in paese stringe parecchio il raggio di ripresa (per ovvie ragioni) , ma tanto da non lasciare quasi spazio se non ai personaggi. Nelle riprese americane è, al contrario, aereo, spazioso, seppure plastico in certi momenti, come una cartolina, si diverte a cercare le stravaganze di un lampione stradale e delle mille luci della città, un bambino nella terra dei giocattoli, a far assaggiare anche a noi quaggiù un pezzetto favoloso dell’America. Per i colori, come sempre, funziona alla perfezione la fotografia, con un bilanciamento cromatico e di contrasti apprezzabile e divertente, i giusti colori a sottolineare i giusti soggetti, come per ogni tocco eccessivo di tonalità ce n’è sempre uno più cupo o tenue a equilibrare. Anche i colori del cibo sono da tenere in considerazione, non a caso vengono riprese in modo ottimale tutte le botteghe del paese, con i loro colori vividi, mentre mancano gli interni di un MacDonald. E in questo, caro regista, c’è una falla di democrazia.
I primi piani sono particolarmente piacevoli, apprezzabilissimi quelli sulla protagonista femminile, la Schiavarelli, come del già citato Marmone. Parliamo comunque di riprese desunte dalla tradizione del reportage, che il regista sa fingere egregiamente, portando avanti fino all’ultimo il suo gioco.
Forse non è stata felicissima l’idea di riportare tutto quel numero di ospiti,  in particolare quelli celebri: passino gli attori consolidati, ma Vendola non risulta particolarmente a proprio agio. Meglio in politica.

In conclusione, c’è da dire che è stata una scelta difficile, osteggiata e combattuta, in cui qualcuno ci vede qualche forzatura e mancata verità sulla trama. Di sicuro di vero ci sono i motivi scatenanti, le cause, gli ideali, e a noi non importa, dopotutto, se la cosa sia andata veramente come viene raccontata. Cirasola è riuscito nel tentativo di farne una commedia di denuncia, ma leggera e divertente.

-R.

lunedì 19 novembre 2012

Amor vincit Omnia (Amore vittorioso)


L’Amore vince su tutto.  Basta il titolo dell'opera a giustificare le fattezze di questo putto ridente, completamente nudo che rivolge lo sguardo beffardo verso il lettore. Caravaggio dipinse quest’opera tra il 1602 ed il 1603, su commissione del marchese Vincenzo Giustiniani, ricco banchiere genovese  che lo pagò ben 300 scudi. Oggi il prestigioso olio su tela (156 x 113 cm) è conservato al Staatliche Museen di Berlino. Divertente e un po’ sfacciato, questo dipinto rappresenta il dio Amore, completamente nudo, che rivolge allo spettatore un sorriso di vittoria e di sfida. La caratteristica luce radente illumina solo in parte il viso del protagonista, lasciando il lettore avvolto da un’aria di mistero e ambiguità.Dallo sfondo scuro emergono degli oggetti in primo piano: spartiti e strumenti musicali sono accostati ad un’armatura, così come il nascosto globo terrestre alla squadra e compasso. Questi oggetti alludono certamente alle varie arti, scienze e discipline che caratterizzavano il mondo seicentesco e delle quali numerosi pensatori hanno parlato e trattato. L’intento di Caravaggio è dimostrare al suo pubblico che l’Amore vince ed è superiore a qualsiasi cosa (come lo esplicita lo stesso titolo). Come in precedenti opere, l’artista scelse di dipingere i suoi personaggi partendo da modelli in carne ed ossa, come se fossero dei ritratti. Per questa tela posò il garzone preferito di Caravaggio, Cecco Boneri, col quale si dice che il pittore avesse una relazione. D'altro canto, i sostenitori dell'omosessualità di Caravaggio ritengono che, tramite il gesto della mano destra, il fanciullo “inviti” lo spettatore a raggiungerlo sul letto dove posa a gambe divaricate con aria provocatoria. Questa tesi può essere però smentita: Caravaggio era un grande ammiratore dell’arte michelangiolesca, secondo la quale con la posa a gambe sollevate o divaricate si alludeva alla resurrezione, alla vittoria e al trionfo (ci sono infatti delle somiglianze con i titanici personaggi della Sistina). Il quadro divenne subito, insieme al “Suonatore di liuto”, il dipinto più bello e più celebre della collezione Giustiniani, tant'è vero che Giovanni Baglione, rivale del Caravaggio, tentò inutilmente di dipingerne una copia.Riallacciandoci alla committenza, "Amor vincit omnia" doveva avere una posizione di privilegio all’interno della galleria pittorica dell’appassionato collezionista. Il marchese Giustiniani, che condivideva il palazzo con il fratello cardinale, aveva fatto collocare davanti all’opera una tenda verde: da una parte per un senso di pudore, dall'altra per riservare solo agli ospiti di riguardo il privilegio di osservare la tela. Non meno importante il motivo legato alla sorprendente vitalità dell'Amore vittorioso che potesse oscurare e rendere malinconiche tutti le altre opere della pur splendida raccolta. Queste accortezze non fecero che accrescere ulteriormente la celebrità della tela, ripetutamente imitata dai pittori e cantata dai poeti. Gli antichi inventari della collezione Giustiniani proposero addirittura un’ interpretazione dal senso etico: l’amore e la lussuria allontanano l’uomo dallo sviluppare le più elevate e degne qualità morali e intellettuali, distraendolo dai suoi obiettivi più profondi. Certo, difficile pensare a questa ipotesi se a realizzare il ritratto è il “maledetto” Caravaggio.
                                                                                               -Federica


venerdì 16 novembre 2012

Friday boulevard: the best of the week

Un'altra settimana volge al termine e sembra che il freddo, stavolta, sia arrivato per davvero! Mentre sorseggiate, quindi, una bella cioccolata calda ecco per voi una selezione delle notizie migliori della settimana!

Si parte da artribune.com dove ho trovato un articolo bellissimo sulle cover storiche dei vinili, un articolo davvero interessante che mi è piaciuto molto e che consiglio a tutti di leggere. Interessante anche questo articolo sulla mostra a New York dedicata a Rothko, Bacon e Pollock e un articolo sulla storia della rivista italiana "QUI arte contemporanea".

Dal sito di arte.it segnalo invece due articoli: il primo sull'asta di pittura e fotografia per beneficenza a favore di Venezia e dell'Emilia, il secondo sul restauro dopo 4 anni di lavoro della "Madonna col bambino" di Mantegna, ora nuovamente esposta al pubblico.

Per concludere questi due articoli, il primo dal sito americano di Rolling Stone, dove leggo che i due Who superstiti testinonial per la battaglia contro il cancro infantile (ndr: stima infinita per loro due) e il secondo, da cineblog.it, dedicato a Ben Stiller, premiato per il suo contributo al cinema.

Auguro a tutti i lettori un buon week-end rinnovando l'appuntamento per lunedì e anticipando che a breve (dopo questo periodo un po' movimentato che c'è stato) ci saranno alcune gustose novità!

                                                                                                    - P.



mercoledì 14 novembre 2012

SettimArte: Nico Cirasola - Bell'epokér


Regia: Nico Cirasola
Anno: 2003
Paese: Italia
Genere: drammatico
Sceneggiatura: Nico Cirasola, Paolo Cimmino
Cast:  Totò Onnis, Frank Lino, Dino Abbrescia, Mariolina De Fano, Dante Marmone.


Film sofferente, nella tessitura come nella realizzazione, osteggiato e scomodo, rappresenta un certo cambiamento, seppure lieve, nello stile solito di Nico Cirasola. Lo abbiamo visto sempre, sì, operare sul sud più sud, ma qui le cose stanno diversamente. Non ci sono i paesaggi da cartolina, qui, ma un’amara presa di coscienza di ciò che si nasconde dietro il sipario, non solo quello del teatro.

Protagonista assoluto è il Politeama Petruzzelli di Bari, in particolare la sua distruzione a causa di un incendio (doloso) nel ’91. Gli altri personaggi sono una cosa a parte, attori che recitano una parte, inconsapevolmente però. Il teatro, volutamente, non è mai citato per intero, come se si desse per scontato che c’è, esiste, vive. Il teatro che, una volta tanto, non è visto come il palco capace al massimo di suscitare qualche cenno di commozione nel pubblico lì davanti, si parla di un teatro avulso per un attimo alle forme d’arte, visto nella sua grandezza, come un’istituzione, un “monumento” come dicono gli stessi attori nell’opera. Teatro come vita vissuta, e basta. E vita vissuta in funzione del teatro, se dobbiamo considerare i vari punti di vista dei personaggi di questa pellicola corale, tutti orbitanti intorno alla struttura ma al contempo tutti così diversi tra loro, volutamente organizzati in classi di appartenenza.
Come è buona regola di Cirasola, che qui non si smentisce, è sovvertito l’ordine logico (e anche cronologico) degli avvenimenti, per sottolineare ancor più come le cose cambiano e al contempo restano le stesse o, ancora meglio, bisogna che tutto cambi perché tutto resti uguale. Personaggi compresi, i quali interpretano le stesse parti nelle varie fasi temporali, come se si volesse dimostrare il fatto che gli attori sono usati completamente ai fini della celebrazione del teatro.

Si parte dalla sua costruzione, decisa da un gruppo di notabili della città, come struttura in grado di esprimere la grandezza della stessa, designata nuova capitale. Vediamo comparire il familiare latifondo, in una scena tra le più topiche dell’opera, in cui il proprietario del fondo è restio a cederlo solo perché “proprietà  di famiglia” , neanche fosse un souvenir. La stessa scena la troveremo all’inverso e “specchiata” alla fine, in cui il padrone vende finalmente il terreno.


Poi si prosegue con le varie epoche, dagli inizi ‘900 si passa a gli anni del dopoguerra e poi agli anni contemporanei, ma le situazioni sono sempre quelle, quasi non ci stupiamo di trovare i personaggi prima in frac e poi in jeans. Non c’è niente da fare, l’uomo continuerà a fregare sempre il prossimo suo, e difatti la Puglia solitamente cantata in toni celebrativi dal regista, qui ne esce veramente male: sono evidenziati in nuce i problemi della mala sanità, dell’arricchimento sfrenato a discapito addirittura delle norme di sicurezza più elementari (“Eh! Un incendio in un teatro?”) , all’umiliazione dei più poveri, o meglio, dei lavoratori. Perché qui è la classe bene a essere presa di mira, con i suoi mille vizi, primo tra tutti è proprio il fatto di non dover mai, in nessun caso, lavorare, e anzi appunto prendersi gioco di chi lo fa per loro (“Mangia pane a tradimento!” come dice uno di loro al ragazzo che lavorava) . Facciamo un salto indietro di 500 anni: chi non si ricorda che nel nell’antichità, nel Medioevo una delle differenze sociali di base era quella che chi lavorava erano i più umili? Pare proprio che il lavoro sia una malattia, e forse non l’unico. Questi “signori” si macchiano dei vizi più turpi e perfino delitti, in nome di deliri personali. A questo proposito, ricordiamo la figura perfettamente delineata dello strozzino, che sembra uscito da un romanzo di Dickens ma è il perfetto emblema di questa classe sociale, che non si accontenta mai, arrivando a ritorcere il male su sé stessa.

Se ci era sembrato di rivedere Fellini con il riferimento circense dell’inizio, non ci siamo sbagliati più di tanto, il tutto pare non avere senso agli occhi del ragazzo, il figlio del custode con i cui occhi vediamo l’azione ed è l’unico a non “invecchiare” . Ha sì una femme fatale, ma riesce a non uscire di senno e va dritto per la sua strada. I valori, in un’ottica forse un po’ buonista, sono depositati nell’animo della gente come lui e suo padre, unico che rimane a vedere il “suo” teatro bruciare mentre tutti scappano, in un omaggio a Nuovo Cinema Paradiso.


La pellicola è un po’ claustrofobica per la mancanza pressoché totale di esterne, è tutto girato in angusti spazi, quelli creati a ad arte che rappresentano proprio il teatro, in particolare le quinte del teatro, e quindi tende, tendoni, che rendono il quadro ancora più piccolo e piena di ombre, mentre i tocchi di colore, sempre cupi, sono dati da oggetti, accenni, capi di vestiario, in particolare delle donne, che per l’appunto sembrano tutte ridicolmente uscite da un cabaret. Solo i “Buoni” , i custodi sono spesso in bianco, anzi “pulito” ; sono numerose le scene del padre che mette a letto il piccolo e gli racconta, nella migliore delle tradizioni, una storia. Ne deriva che i primi piani e quelli americani sono accentuati e particolarmente curati. Fa però molta suggestione la scena del loggione del teatro ripreso dal basso durante una serata, con un rapido movimento la camera passa al palco, quasi sottosopra. Di fatti le inquadrature più spaziose sono tutte così vertiginose. Si prova questa sensazione, come se si fosse stati tutto il tempo dietro le quinte a giocare a poker e all’uscita si avvertisse una specie di fobia alla luce, sebbene questa sia elettrica.

Se all’inizio, nelle scene “contemporanee”, le cose possono sembrare cambiare, ci accorgiamo poi, dobbiamo ammetterlo, che non è così: cambiano i mezzi, le parole, i modi, ma siamo sempre al punto di partenza, come in una labirinto da cui non si trova l’uscita. Unico modo è ricominciare sempre tutto daccapo, ripetere tutto fino a capire dov’è l’”anello che non tiene”, come diceva Montale. E qui, come dice bene proprio uno dei “signorotti”, purtroppo non conta neanche quanto sia buona una singola persona, si vive tutti insieme e si spartiscono meriti e demeriti. A uscirne male è tutta la società barese, se vogliamo quella italiana, e il film risulta quindi una critica ragionata e sottile.


-R.

lunedì 12 novembre 2012

Tra simbologia e novità pre-rinascimentali: Opus Karoli Crivelli Veneti


La Madonna della Passione è un'opera fondamentale per conoscere la prima attività del pittore, poichè è ricca di elementi donatelliani, lippeschi e squarcioneschi, appresi nella sua esperienza di bottega.
Il critico Amico Ricci la ricorda a Venezia e secondo lui quest'opera proveniva dal monastero di San Lorenzo, in seguito passò alla raccolta padovana Barbini-Baganze, poi a Verona, a Pompei ed infine a Castelvecchio.
Parlando della datazione è difficile stabilirla con precisione: si ipotizza che sia intorno al decennio 1450-60.La tecnica è naturalmente pittorica, le cui dimensioni sono 71 x 48 cm, mentre il soggetto è di sfondo religioso-allegorico.
In basso a destra c'è la firma dell'artista, scritta in latino e in lettere capitali classiche: "OPUS KAROLI CRIVELLI VENETI".
L'immagine è costituita da diversi piani prospettici: nel primo troviamo tre angeli con i misteri della passione, tra i quali spiccano la croce e la corona di spine.
Sullo stesso livello, appoggiata al davanzale marmoreo si alza una colonna dal capitello ionico. Nei suoi dintorni vi sono figure umane e sul capitello troviamo un gallo.
Al centro dello stesso piano è raffigurata un'interessante immagine sacra di Maria e Gesù, poichè risulta che le mani giunte della Madonna e il cuscino nero dove il Bambino è in piedi sono in primo piano, mentre il resto dei corpi della Vergine e del Redentore, il festone di frutta decorativo e i putti musicanti in alto in secondo livello.
Lo sfondo sotto un'architettura voltata a botte si compone del tradizionale scorcio rinascimentale, raffigurato con la tecnica del trompe-l'oeil: in quello di sinistra troviamo un muro che probabilmente separa la scena centrale da un ipotetico paradiso terrestre, poichè spuntano tra i mattoni delle erbe e dei fiori.In quello di destra è raffigurato il Golgota con le sue tre croci, una Gerusalemme curiosamente gotica percorsa da personaggi orientali, allegorici alberi secchi e l'episodio di San Pietro mentre mozza l'orecchio al soldato.
Crivelli non si limita a delinearci un semplice ritratto della Madonna con il Bambino, ma vi unisce la grande simbologia allegorica della Passione, che ci invita alla preghiera.
Il monte sul quale si ergono le tre croci è allegoricamente il Golgota, così come l'albero secco con l'avvoltoio appollaiato e il bambino che cavalca il destriero bianco.Le croci hanno senza dubbio un significato religioso, ma indicano anche la primitiva prospettiva del Crivelli.
L'albero e l'uccello sono emblemi di crudeltà e morte, mentre il bambino a cavallo simboleggia maturità e incostanza.
Grande valore allegorico è trasmesso anche dai cardellini che si annidano nel festone di frutta e dalla colonna, il tutto circondato dall'importantissimo colore, scelto tra le più calde gradazioni.
Il Crivelli ci rappresenta il famoso uccellino che evoca il sangue di Cristo versato durante il suo calvario. La leggenda ci narra infatti che questo umile animaletto si sia avvicinato a Gesù durante la via Crucis, per ripulirlo dal sangue provocatogli dalla corona di spine: il cardellino si sporcò quindi il petto, rendendolo rosso per sempre.
Il festone di frutta, invece, ci trasmette un gusto che ci sconcerta e ci affascina, grazie alla sensibilità tardogotica nel riprodurre i minimi dettagli.  Tra le preferenze naturalistiche del Crivelli troviamo i cetrioli (simboleggianti la resurrezione di Cristo o il significato negativo della perdizione e del peccato), le mele (peccato originale e redenzione di Gesù), le melagrane (fertilità ed abbondanza), uva e foglie di alloro (gloria, vittoria e sapienza).
La colonna ionica , invece, rappresenta il collegamento tra la terra e il Cielo, così come la scala dietro e le alte torri gotiche dello sfondo di destra.L'uomo vuole ascendere verso Dio, verso l'infinito e soprattutto verso la salvezza.
Da notare è anche il gallo sopra la colonna: sicuramente è da collegare alla passione e all'apostolo Pietro, ma per rimanere pertinenti alla salvezza dell'uomo, si può identificare come lo stesso calvario del Signore e alla fede dei cristinani che vogliono, come lui, risorgere nel Paradiso di Dio.
I putti musicanti in alto, sempre allegoricamente collegabili alla Passione, appartengono alle innovazoni rinascimentali ed emulano gli affreschi del Mantegna. Seppur arricchendo le sue conoscenze con le avanguardie del tempo, Crivelli rimane ancora attaccato alla tradizione medievale: da una parte troviamo la classicità delle forme e una prospettiva abbozzata e molto intuitiva, dall'altro una linea lontana dalla realtà, l'eleganza delle texture, le dimensioni non reali dei personaggi sacri e l'assolutezza senza tempo dell'oro.
Il pittore è portato alle regole fisse e alla raffinatezza del gotico internazionale, mentre per origine è indirizzato all'arte bizantina veneziana. Come accennato in precedenza, le texture che caratterizzano i panneggi dei protagonisti sono molto raffinate e virtuose, così come i marmi policromi. Entrambi rimandano inoltre all'arte orientale, di stampo arabesco. Non a caso l'artista sceglie una linea fluida e un segno evidente, andamenti curvilinei e superfici uniformi.
Il colore è ancora carico di forte simbolismo ( come il rosso, rimando alla regalità e al sacrificio, il blu e l'oro alla spiritualità e alla regalità e il nero alla morte e sconfitta del Cristo).
Per la Madonna della Passione sceglie gradazioni calde e una luce intensa proveniente da sinistra. Il volume è reso grazie al chiaroscuro, alle gradazioni cromatiche e alla prospettiva primitiva, che aiuta a definire anche lo spazio, sebbene sia per lo più simbolico.
La struttura compositiva è simmetrica speculare, comportando un equilibrio tra la parte a sinistra e a destra. L'asse di simmetria passa attraverso il vaso di fiori in alto e il corpo di Maria.
Si può dire quindi che Crivelli in questa sua prima opera abbia preferito puntare sull'aspetto religioso-simbolico, poichè la tecnica risulta lineare e prova di troppe innovazioni pittoriche.
L'opera è in toto l'allegoria della passione di Gesù, ma anche della salvazione dell'uomo. Dopo le sofferenze e la morte, Cristo risorge nella gloria di Dio e così vale anche per l'uomo, il quale dopo una vita tentata dal peccato, muore nella speranza della salvezza e poi risorge nel Signore.
                                                                                                                                                                                 -Federica

venerdì 9 novembre 2012

Friday boulevard: the best of the week

Anche questa settimana si avvia alla conclusione e, come tradizione, pubblichiamo quanto di interessante è avvenuto in questi giorni!

Da arte.it segnalo un articolo sul ritorno, dopo 50 anni, della mostra sull'arte cinetica curata da Bruno Munari mentre da ilgiornaledellarte.com un articolo sull'asta di Christie’s a New York.
Da arte.it, invece, segnalo questa mostra interessante sulla donna nella pittura italiana dell’800. Dalla Scapigliatura alla Belle Epoque che si terrà a Milano.
Per concludere, da artribune.it segnalo questo articolo sul weekend underground, a Milano, tra musica, video e poesia, dove si esibirà David Thomas, fondatore dei Pere Ubu.

Passando al mondo del cinema condivido queste due notizie che ho trovato molto interessanti: la prima riguarda Michael Arndt, sceneggiatore di Toy Story 3, che sembra lavorerà anche alla nuova trilogia di Star Wars, la seconda invece riguarda invece il carcere per il regista del controverso film anti-islam "Innocence of Muslims".

Bene, detto questo vi auguro un piacevole week-end, rinnovando l'appuntamento per lunedì prossimo con un nuovo articolo!

                                                                                                    - P.







mercoledì 7 novembre 2012

SettimArte: Nico Cirasola - Odore di pioggia


Regia: Nico Cirasola
Anno: 1989
Paese: Italia
Genere: commedia/ drammatico
Sceneggiatura: Nico Cirasola
Cast:  Renzo Arbore , Totò Onnis , Agnete Vossgard, Nico Cirasola

Dipingere i tratti di questa parte suddissima d’Italia in toni tanto epici e drammatici fa sorridere. Perché gli spunti mitici ci sono, eccome. Magari i più attenti possono aver avvertito la nota ironica già nel titolo, nella terra dove della pioggia solo odore si sente, nelle estati che paiono più africane che altro, nei campi arsi e silenziosi, nelle piazzette deserte dei paesini a mezzogiorno, nei discorsi a ritmo di litania dei vecchi come dei giovani. Ma questo lo capisce solo un pugliese e se la ride tra sé e sé, se ne ha la voglia e l’età. Eppure, strano a dirsi, la pioggia arriva sul serio, come arrivava un’incredibile neve siciliana a chiudere quella famosa novella di Verga.

Di storia vera, cronologicamente parlando, c’è poco. Si tratta di un affastellamento di immagini e scene, musica e parole, una tavolozza di colori accuratamente scelti e una certa aria d’innocenza seminale che in giro si vede ormai di rado. Protagonista è un giovane dell’entroterra barese, Totò, figlio di un capo ferroviere, e fratello di uno sfaccendato peggiore di lui, una vita persa a inseguire il sogno americano, arrivato fin troppo tardi quaggiù, dove il rock’n’roll alla Elvis sfuma nel blues e nel canto delle cicale. Armato di una mitologica moto e gel nei capelli, commette l’impudenza di innamorarsi della straniera di turno, ovviamente maritata a un militare sempre tragicamente in mimetica, fin troppo impegnato a perdere a biliardo piuttosto che portare in giro l’annoiata mogliettina, che egregiamente, dopo un lungo corteggiamento dall’aria retrò, decide di consolarsi con l’ammiratore non poi tanto segreto e scappare con lui. Da non dimenticare che il giovanotto ha velleità poetiche, fa dell’arte, sebbene si tratti del genio incompreso da tutti, famiglia, popolino, artisti di professione addirittura. Unica valvola di sfogo la trova nelle fantasie di cui ci rende partecipi, dei sogni a occhi a aperti o meno, delle fumate in compagnia. Totò si sente stretto in quel mondo, vuole evadere ma non sa come, e sogna l’America. Sogna l’Americana. Ed è curioso di come riesca alla fine, con un colpo di scena garbato e decisamente apprezzabile, a realizzare il suo piano di fuga e ad uscirne del tutto redento. Curioso perché il suo destino sembrava già segnato, una processione interminabile di mattinate iniziate con la luna storta e il rimbombo del treno nelle orecchie. Dopotutto vivere affianco a una ferrovia comporta anche questo, soprattutto se tuo padre è ferroviere e ti da’ del lazzarone perché tu non lo sarai mai.



 “Possibile che qui tra treni e persone non si possa mai dormire in pace?” , ripete Totò, alla madre che gli nasconde i suoi scritti (quale incosciente violenza!) , al padre che lo butta già dal letto per ricordargli che ormai lo aspettano solo i campi, al fratello che gli propina vestiti rubati per presentarsi alla fantomatica Sagra del Panzerotto che, nonostante la cura e l’impegno che pare dedicargli il nostro, risulterà un fiasco. Ma dove si è visto mai che in una sagra paesana con tanto di ballerine a ritmo di disco la gente si mette ad ascoltare i deliri dell’acchiappamosch? E così fa una fine da scolaretto bastonato e si ritira dal palco, con tanto di coro di fischi. Problemi suoi se si è voluto esporre così, da ingenuo qual è lo capisce al varco che l’arte non è naturalezza, non si può semplicemente buttare fuori quello che si pensa e si crede, come lui fa durante gli incontri con l’americana, una canzone cantata insieme e via, o quando si ritira da solo a scriversi versi sgangherati sulle mani. Gli dice bene il Satiro del castello “Addirittura pagano per la poesia?” , stando a significare quanto sempliciotti fossero i sogni di Totò, che pensava di sbancare mettendosi a declamare pubblicamente (notare come la famiglia sia assente alla rappresentazione) .  Decisamente combattuto, il nostro personaggio, imbevuto com’è nell’ipnosi della fantomatica radio che imperversa per tutto il film (con la voce di Vito Riviello) , ma incatenato all’ordine dai richiami dei mal assortiti genitori, che non ci sentiamo di condannare fino in fondo: sono generazioni e modi di pensare opposti, alla scontro aperto, l’uno pronto a tutto pur di “costruire” qualcosa di saldo e sicuro, l’altro per “costruire” qualcosa di cui neanche ha la certezza, una torre di Babele di idee, solo la parvenza di una vaga ispirazione.
Giustamente con l’arte non si mangia, ma Totò non si farà etichettare come buono a nulla. E lo fa attraverso l’Americana, anche lei, come la tanto attesa pioggia che non si decide a scendere dai nuvoloni che passano, è una presenza fuori luogo, una Diana che insegue farfalle avvolta in abiti stravaganti, ha quest’aria anni ’20, da mitologica femme fatale, androgina, solitaria. E’ il mondo del nord che si incontra con quello del sud, in una simbologia ingenuamente efficace: la biondina filiforme confrontata all’abbronzata signorina che aspetta il treno (e si saprà poi che è una passeggera a suo modo abituale, le abitudini in fondo sono sempre le stesse a qualunque latitudine) ; i due protagonisti che si incontrano a Castel del Monte, culla d’incontro di una dinastia germanica e una sud-italiana, dove ci appaiono moderne Sibille, il Satiro già nominato, tre bambine che ricordano le Grazie o forse le Parche; sempre i due in treno con il palleggiamento di primi piani ad angolo, volti persi nella penombra, ma perfettamente classificabili somaticamente parlando.
Paradossalmente, Totò sta meglio con lei che con i suoi simili che, raccontati per come sono, ci sembra quasi di doverli incontrare per la strada. Un azzeccatissimo e atteso Renzo Arbore nei panni di un ispirato barbiere (il rimando a Rossini è quasi scontato)  tiene una lezione improvvisata sul’importanza del ritmo nella vita, sostenendo che ci sono mestieri e mestieri e non a tutti è possibile applicare un ritmo da seguire, da intendersi come una spiegazione al male di vivere di Totò: inutile forzare l’ispirazione, non si va a cercare chissà dove né al contempo la si aspetta senza far niente. Meglio è piuttosto sapere come andarla a trovare, e affinare i mezzi, gli strumenti, i “rasoi” della propria arte. Questo è il tipo di saggezza che concilia i mondi contrapposti i genitori e figli, una saggezza senza tempo e costrizioni, che naturalmente si adatta a tempi e circostanze e resta per sempre, sebbene non si faccia facilmente reperire perché è andata a farsi un caffettino al bar.
Si intravedono intrighi e delitti di una classe dirigente stanca, ma tuttavia impettita e tronfia, totalmente avulsa dal reale, a cominciare dal marito sotto ipnosi dell’americana e per finire al nominatissimo assessore, tutti dipinti con una forte nota di macchiettismo e humour nero, che guarda caso si ritrova tutta nel saloon del barbiere, con tanto di chitarrista blues che sottolinea musicalmente la rasatura e moccioso lustrascarpe, omaggio a De Sica.
A loro contrapposti, il Jaguaro, sarebbe a dire il regista sotto le mentite spoglie del personaggio poco raccomandabile di cui il padre rimprovera la frequentazione al figlio minore, e lo zio di Totò, unica figura “materna” del film, autore di un breve “flashback nel flashback” a ricordare i tempi andati in cui si scomodavano i santi per corteggiare le ragazze.

In effetti il lavoro è tutto un ricordo (in cui, però, bisogna far fede sulla propria memoria e tener presente le prime battute del film, dacché il rimando risulta alquanto labile e lontano) , della coppia di amanti in treno che parte dopo aver consumato l’omicidio del marito (lei) e aver inscenato la tragedia (lui) . Nessun mezzo di trasporto più adatto: i treni e le ferrovie la fanno da padrone per tutta la visione, come a esprimere il desiderio d’evasione di Totò, a sottendere che in quel luogo dimenticato sono l’unico mezzo possibile, sebbene siano tratteggiati anche questi a tinte epiche, futuriste: riprese lievemente dal basso e largo uso del grandangolo, panoramiche e contrasti di colore li fanno sembrare monumenti. I campi lunghi e le panoramiche risultano a prima vista ingenue, con questi sfondi naturalistici, i campi, il cielo, solo poi ci accorgiamo di quanto siano stratificate e “spesse” , intense, queste riprese, delle cartoline  a più piani, bell’esempio di descrizione paesaggistica. Sostanzialmente la camera, visti anche luoghi e tempi dell’azione, non segue moltissimo e non si muove molto rapidamente, preferendo inquadrature alquanto plastiche, e ovviando alla cosa per mezzo del montaggio rapido, quasi a rimbalzo da un punto di vista a un altro. Al contrario, doppia importanza è data al colore, fin dalle prime battute concentrato su tra colori base: verde, bianco e rosso, difficile catalogarlo come semplice patriottismo, e altisonante oltre che retrò collegarlo all’unità nazionale. 


Il rosso in particolare. Si perde il conto delle scene in cui si annoverano particolari rossi su sfondo solitamente scuro, semplicisticamente per ravvivare la scena troppo cupa, simbolicamente per evitare la piattezza espressiva  che il luogo torpido emana, quasi un campanello sempre acceso, ma senza allarmismi. E difatti i due forse unici personaggi completamente negativi dell’opera, gli “esattori” dei debiti di Totò che gli appaiono in sogno, sono tutti e due in nero.

In senso fotografico, punto focale è la scena della fontana, nel secondo tempo: un complesso quadro con fuoco in primo piano sulle spalle della ragazza fa rientrare in secondo piano il volto di Totò incorniciato dalla ruota, sfocato. Sembra di rivedere la scena evangelica della donna samaritana. E infatti la ragazza chiede acqua, venendo paradossalmente accontentata da una pioggia torrenziale che funge da espediente narrativo, come nella migliore delle tradizioni, a far appartare in una grotta i due, novelli Enea e Didone. Ma hanno l’aria di chi la scena l’ha già vista, volutamente non c’è enfasi e la cosa non è sottolineata, facendola per contrasto risaltare maggiormente: è come se i due, capendosi al volo, avessero saputo già in anticipo dove sarebbero andati a finire, per cui la storia si consuma nell’aria squisita di un idillio prosaico, dai toni moderati e senza scandali.
Forse sono i due personaggi più sicuri, nonostante tutto, non si affannano, sebbene le loro origini siano ben diverse (e la ragazza sottolinei, quasi fuori luogo, di avere avuto un’infanzia contadina) a cercare sempre una spiegazione lampante: entrambi preferiscono ritirarsi in una sonnolenta riflessività, certi, quasi come un atto di fede, che tutto si metterà in ordine. E’ solo per questo motivo che non ci spaventa la disarmante lucidità con cui l’americana gioca alla roulette russa e uccide, difatti niente le succede.

La favola si conclude così, forse in maniera un po’sbrigativa, ma non importa, la morale qui non sta alla fine, dura tutta la visione. E quasi quasi abbiamo tutti tirato un sospiro di sollievo nel vedere i due fratelli che s’incontrano in treno, improvvisamente realizzati, come appunto in una favola. Sembra di sentirsi dire “Era destino” . Forse. O forse sono semplicemente i simboli, gli eroi di questo piccolo poema epico sudista.

-R.

lunedì 5 novembre 2012

Il trionfo della morte e la danza macabra

[Premessa: mi dispiace moltissimo per i problemi che si sono presentati nelle ultime settimane e con queste due righe vorrei chiedere scusa ai lettori e alle mie due colleghe per non aver potuto garantire un servizio puntuale come mio solito ed essere stato costretto a pubblicare questo articolo con un po' di ritardo. Purtroppo certe volte i problemi impediscono di dare il 100%, ma in fondo l'importante è rialzarsi sempre. Scusate ancora. - P.]


Buonasera... MUHAHAHAHAHAHA!!
La paura: una delle più radicate emozioni umane, fra l'altro la più viscerale e a volte anche quella più incomprensibile. Viviamo ormai in un'epoca moderna in cui molte delle minacce che avrebbero impaurito i nostri antenati non sono più così terribili come potevano sembrare millenni fa, eppure c'è sempre una paura che rimane invincibile, proprio perché fa leva sul senso di ignoto e di impotenza, sappiamo che non siamo in grado di combatterla: la morte.
Il progresso scientifico e le scoperte mediche hanno permesso di salvare molte vite, ma lei rimane invincibile e terrorizzante, ma nonostante ciò ci divertiamo a stuzzicare questa paura ancestrale, come dimostrano i vari film apocalittici sulle orde di zombie che si abbattono sugli indifesi vivi in una carneficina continua: sono un esempio i vari film della saga di Romero o quelli della serie “Il ritorno dei morti viventi”.

Scena tratta da uno dei film di George Romero
Sembra quasi che, per esorcizzare la paura della morte e dell'ignoto che si porta appresso, vogliamo dipingerla con dei toni talmente irreali ed iperbolici da spaventarci, ma al tempo stesso farci tirare un sospiro di sollievo (“al diavolo, è solo un film!” dicono quelli che escono dalla sala terrorizzati dopo la proiezione), eppure questa tematica non è così nuova come si crede (e non me ne voglia il maestro George Romero): in passato la caducità della vita era stata rappresentata in modo analogo proprio in un periodo caratterizzato dall'ansia per il cambiamento e che gli storici e i critici additano spesso come “buio”: il Medioevo.
Del resto, come non comprendere la paura che aleggiava fra gli uomini di quel tempo? Carestie, guerre e pestilenza, osteggiate da un pensiero religioso imperante che non riusciva a dare risposte reali se non alimentare ulteriormente l'inquietudine ed esaltare la speranza di una vita ultra-terrena. Da questo sostrato culturale si diffonde l'iconografia del “Trionfo della morte” e la sua variante “La danza macabra”, diffuso in varie zone europee e italiane dopo il Trecento.
Il tema alla base di questa figurazione è quello del “memento mori”, il messaggio che la vita terrena altro non è se non un momento di passaggio che proietta verso la vera vita, che è quella ultraterrena: non a caso, nelle prime rappresentazioni, gli elementi macabri si connetta al tema del “giudizio universale”, dove tutte le anime saranno giudicate ed avranno un posto fra le grazie di Dio (il Paradiso) o subiranno l'eterna dannazione (l'Inferno), la morte falcia via le anime dei vivi in una visione desolata che sembra quasi sconnessa dal tema della salvezza e del mondo celeste descritto proprio in quel periodo da Dante nella “Divina Commedia”.
Ne è un esempio il famoso “Trionfo della morte” che si trova presso l'Oratorio dei Disciplini di Clusone, in cui la morte è rappresentata come uno scheletro con una corona ed un mantello: aiutata da altri due scheletri, armati rispettivamente di una balestra e di un archibugio, stermina la popolazione senza risparmiare neanche i ricchi che, inginocchiati di fronte ad essa, le offrono doni e ricchezze per avere in cambio la salvezza, un cartiglio posto in alto avverte che la morte colpisce in modo doloroso soltanto chi offende Dio, mentre porta ad una vita migliore chi pratica la giustizia.

Trionfo della morte - Clusone
Per i latini la morte è femmina, mentre per i greci ed i tedeschi la morte è maschio: nel monastero benedettino di Subiaco, nel Lazio, si può ammirare una delle rappresentazioni più particolari della mietitrice, con i capelli lunghi e sciolti, a cavallo con la spada sguainata e che parla ciociaro, con le parole che le escono dalla bocca, come un antenato di un fumetto, la cosa ancora più curiosa è la straordinaria somiglianza fra questa rappresentazione della morte e una delle scene più famose del film “Il ritorno dei morti viventi”, dove uno zombie donna, ridotto ad uno scheletro putrescente, viene interrogato sul perché i morti si cibino del cervello dei vivi.

Rappresentazione della morte - Subiaco



I temi macabri ed ossessivi vengono ripresi anche nel celebre affresco del “Trionfo della morte” a palazzo Scalafani a Palermo, dove la morte, rappresentata come uno scheletro a cavallo, reca con sé la falce e ha appena scoccato una freccia verso un giovane, colpendolo al collo: la morte colpisce indistintamente tutti, come si evince dal cumulo di cadaveri, i poveri a sinistra sembrano chiedere alla mietitrice di colpirli per far finire le loro sofferenze, mentre i ricchi sulla destra sembrano non accorgersi di quanto stia accadendo.
Il primo aspetto che colpisce è come questa rappresentazione sia stata ripresa da un pittore successivo, molto spesso sottovalutato, il francese Henri Rousseau detto “il doganiere”: nel suo quadro “La Guerra” la donna a cavallo che regge in una mano una spada e nell'altra una torcia, cavalca sopra un cumulo di cadaveri in un paesaggio brullo, mentre dei corvi si nutrono dei resti della battaglia, la bocca aperta e l'espressione soddisfatta sembrano quasi comunicare l'urlo e la risata sonora della guerriera. Un motivo assai simile alle immagini viste finora nell'arte medievale.

Trionfo della morte (Palazzo Scalafani) - Palermo

 Henri Rousseau - "La guerra" 
L'altro aspetto che fa riflettere è come, accanto alla paura e al grottesco che l'iconografia della “danza macabra” si faccia strada una sottile vena ironica: un modo in cui i poveri possono godere del potere livellatore della morte che, con la sua falce, sottomette al suo potere tutti, compresi i ricchi, gli istruiti ed i prelati, una piccola “vendetta” per i ceti meno abbietti.
L'ironia tragica con cui viene trattata la tematica della morte si rifà al tema del “carnascialesco” che si era sviluppato già nel Duecento con “L'Inferno” dantesco o con i sonetti taglienti di Cecco Angiolieri, un macabro “can can” con cui si cerca di esorcizzare la paura della morte attraverso una risata, dando alla “triste signora” attributi umani (ella ride e beve vino alle feste).
Non è un caso, quindi, che la festa di Halloween appena celebrata (ndr: questo post sarebbe stato lo speciale di fine mese del 31 ottobre, ma per problemi di forza maggiore non sono riuscito a postarlo prima) sia quindi un rito “carnascialesco” con cui si esorcizza l'ancestrale paura dell'abisso dell'oltre-tomba. In Messico, la festa dei morti (detto in spagnolo “Día de Muertos”) è una festa gioiosa, con cibi, bevande e colori sgargianti, accostati a rappresentazioni caricaturali della morte, questo aspetto particolare della cultura messicana è rappresentato in uno dei più celebri murales del pittore muralista Diego Rivera, “Sogno di una domenica pomeriggio nell’Alameda Central”: la morte, al centro del corteo, sembra molto distante dalla rappresentazione europea, che la vede sanguinaria e bellicosa, vestita con abiti bianchi sfarzosi, più adatti ad una sposa che alla mietitrice, la morte cammina affiancata dalla popolazione e dalle autorità locali, come in una processione di paese, il senso di stranezza è aumentato dall'accostamento sgargiante dei colori che conferiscono alla scena un tono festoso, come se la morte venisse accolta con chiassosi balli e non temuta.

 Diego Rivera - “Sogno di una domenica pomeriggio nell’Alameda Central" 
Del resto, la danza macabra in versione ironica e quasi spiritosa, è stata ripresa abilmente prima da Walt Disney nel suo corto “the Skeleton Dance” del 1929, dove gli scheletri escono dalle loro tombe per danzare e suonare (memorabile come suonano le loro stesse ossa come uno xilophono) e successivamente da uno dei capolavori del gotico animato: “The Nightmare before christmas” di Tim Burton, che sembra aver recepito la lezione del trionfo della morte e della danza macabra per rileggerlo con il suo particolarissimo stile a metà fra il gotico e il naif, dove i mostri e gli scheletri ballano e cantano per festeggiare la festa di Halloween e sembrano giocare in un mondo ultraterreno.






Grazie all'ironia e al “carnascialesco”, l'uomo riesce ad esorcizzare la paura della morte ed il suo “horror vacui” e a poter vivere serenamente la vita “terrena” che tanto era malvista nel Medioevo.

                                                                                                      - P.