Regia: Nico Cirasola
Anno: 2009
Paese: Italia
Genere: docu-fiction
Sceneggiatura: Nico Cirasola, Alessia Lepore
Cast: Dante Marmone,
Tiziana Schiavarelli, Luca Cirasola, Renzo Arbore, Lino Banfi, Michele Placido, Nichi Vendola
Partiamo col riferire che il docu-fiction in oggetto è stato
definito nei modi più disparati: cinema-realtà, frutto di intrighi politici e
falsità giornalistiche, una campagna pubblicitaria ben celata, solo burla, un
gioiello. Ai fini dell’analisi filmica questo interessa poco; non sono stati in
pochi a pensare che se fosse vera, la storia, sarebbe un piccolo miracolo. Se
fosse falsa non cambierebbe poi un granché, sarebbe solo da ritenersi un finto
documentario. Doppiamente finto.
La storia, in ogni caso, ha un fondo di verità
inoppugnabile: 2001, Altamura, Puglia, in un piccolo paese delle Murge viene
aperto un gigantesco McDonald, costretto però a battere in ritirata quando una
focacceria locale viene a sua volta aperta nei dintorni, riscuotendo più
successo e giusta lode. Corredata, la storia, da una serie di interviste a
personaggi del posto come a celebrità pugliesi, in veste di “testimoni” , viene
a emergere tra loro innanzitutto la figura di Onofrio Pepe, che si reca a
Chicago a girare un reportage sul luogo dove fu aperto il primo “Maccy” e,
provocatoriamente, si mette in testa di esportare anche lì la famosa focaccia.
C’è sicuramente qualcuno che non la conosce: farina, lievito olio, patate, sale e pomodorini freschi a condire. Sembra si sia
scatenato il putiferio, e per questa semplice golosità? Sì, perché il regista,
che ci ha abituato ai suoi toni epici, la configura fin da subito come uno scontro epocale,
purtroppo a finale prevedibile, se è vero che i buoni vincono sempre alla fine
delle favole…Per la stessa ragione Dante (Dante Marmone) conquista l’amata signora
Rosa (Tiziana Schiavarelli) , dopo essere tornato a casa con le pive nel sacco
il giorno prima, già immaginando di essere stato surclassato dal bizzarro
rivale, uno sgargiante Manuel (Luca Cirasola) .
Il film per l’appunto si svolge su tre filoni narrativi, che
da spartire hanno poco: il primo, le interviste alla gente del posto (già
preparate, ovviamente) , in toni ora rilassati e fiabeschi, alla Hemingway, ora
più faceti e immediati, con risate che esplodono spontanee; il secondo, il
reportage di Pepe da oltreoceano, un po’ il “continua alla prossima puntata….”
dell’American dream che, se collocato in sequenza temporale cronologica con le
altre opere del regista capiamo che si configura come la giusta conclusione al
sillogismo implicito concepito da Cirasola; il terzo, la storia d’amore
immancabile, classica, quasi muta, quindi mimica, in cui la scala cromatica e i
giochi di riprese e montaggio la fanno da padrone, in un puro esercizio di
regia.
E’ uno degli ospiti più famosi ad aprire l’opera, anzi a
proiettarla, in un gioco di scatole cinesi, nella penombra: Michele Placido, che come neanche
il più navigato degli opinionisti di cinema, ci introduce alla visione
raccontando le sue impressioni. Dopotutto è un pugliese anche lui, e ci tiene
farlo sapere. Segue una ripresa quasi a cartoon sulle testate di mezzo mondo
che parlano dell’episodio, ricollegandoci alla magniloquenza del regista, e poi
si parte subito con la carrellata di ospiti, in una galleria di arti e mestieri
del paese di Altamura, che viene dipinta come neanche fosse il crocevia dei
record culinari a partire dal macellaio più anziano d’Italia, e proseguendo con
lo stesso protagonista della vicenda, il panettiere Luca Di Gesù, che però non
è messo in evidenza, è un testimone alla apri di tutti gli altri. E si capisce
quindi subito che Cirasola ha scelto come primadonna Dante Marmone, nel filone
più improbabile del film, ma di sicuro il migliore dal punto di vista puramente
di cinematografia, come sul versante simbolico. Sarebbe troppo facile
etichettarla come una storia d’amore tout court e poi i riferimenti alla
vicenda principale sono tanti: dalla figura del’intruso (il Maccy) , alla donna
nostrana abbondante e piaciona (la focaccia, che guarda caso lei prepara in un
tripudio di voluttà non solo culinaria) , al nostro eroe che riesce a spuntarla
nonostante l’”impareggiabile” concorrenza, anche se l’intruso sbeffeggiato in
maniera oltremodo comica è uno dei punti forti della pellicola. Perfino i
colori sono simili, quel giallo acceso delle collinette del MacDonald si
rispecchiano infatti nella decapottabile di Manuel, quell’insegna cha va
addirittura a fare ombra ai pomodori messi ad asciugare da Dante, pomodori che
saranno quasi il suo doppelganger per tutta la visione. La nostra cara signora,
che inizialmente cade nella stravagante spirale di seduzione dello straniero,
si ricrede dopo averlo visto spostare schifato i pomodori della focaccia, e
anche qui il simbolismo si spreca: è la società globalizzata che elimina quel
fastidioso condimento, troppo sano, troppo povero. I rischi sono quelli che si
vedono e che i testimoni del regista commentano, quelli di un appiattimento e
di un omologazione inarrestabile, oltre che un ovvio impoverimento dei prodotti
culinari e non solo. Il regista mostra di sapere fare anche l’avvocato del
diavolo, portando tesi anche a favore della parte avversaria: mostra, perché le
uniche note positive a favore del Maccy sono di un gruppo di anziani che lì
trovava refrigerio, di una mamma che ci portava i bambini come neanche a un
doposcuola, e di un gruppo di ragazzi che del ristorante faceva il suo punto di
ritrovo. Ma non dimentichiamoci che il ristorante ha comunque una proprio
tradizione: viene citato l’anno d’apertura del primo MAcDonald a Chicago, e
forse è questa l’unica nota veramente positiva a favore, il far poggiare
l’avversario su basi simili alle proprie, in questo caso la tradizione, in modo
che il trionfo sia ancora più brillante
La si può leggere, infatti, come un’amara riflessione sullo
scorrere del tempo che cancella ricordi e tradizioni, in favore del nuovo, che
il regista felicemente riscrive in una favola giornalisticizzata, una difesa appassionata di buone novelle,
corredata da giuste citazioni in forma di proverbio (“Abbiamo avuto tutto quello
che ci serve per vivere meglio…basta sceglierlo”) , come la si può anche
leggere come l’ennesimo omaggio del cineasta alla sua terra natia, con i suoi
vicoli, le sue personalità, i suoi bambini, il suo dialetto. Una difesa
scherzosa è ripresa dal duo comico Arbore-Banfi, che si sfidano a colpi di
tegami nell’epico derby Foggia-Bari, con addosso improbabile grembiuli e
tagliuzzando prelibatezza locali, mentre ne vengono decantate le proprietà: i
vati della culinaria comica pugliese.
Non perdono neanche tempo a improvvisare una sigletta in
stile blues, come infatti il titolo dell’opera recita. E difatti degli squisiti
motivetti in stile si rincorrono per tutta la visione, sottolineando per
contrasto la trama: il blues sembra entrarci poco nel contesto, ma ci rendiamo
poi conto che i suoi suoni grezzi ma al contempo semplici e familiari come solo
il blues sa esserlo, con gli immancabili tre accordi canonici, ci riportano a
casa.
Nota particolare sulla scena del giornalista francese: come
neanche nei più navigati dei thriller, alla sue spalle entra totalmente fuori
luogo e fuori tempo, accentuando la sua idea di intruso, il famoso Manuel,
sottolineato da un giro di contrabbasso quasi inquietante, come se neanche
dovesse saltar su a pugnalare alle spalle il malcapitato. Difatti anche altrove
la presenza dello straniero, di cui non è chiaro il perché e il percome si
trovi lì e a che titolo, risulta quasi imbarazzante: lo vediamo in giro vestito
con improbabile giacca sgargiante ed
espressione non troppo furba, mentre sfreccia per tratturi polverosi con la sua
coupé di un giallo tremendo, full optional. Optional che, come nel caso del
gps, puntualmente lo tradiscono.
Il regista non si risparmia e, caro alla sua personale
tradizione, si compiace di questi piani lunghissimi sul paesaggio colorato, di
queste panoramiche delle strade e dei tratturi, mentre in paese stringe
parecchio il raggio di ripresa (per ovvie ragioni) , ma tanto da non lasciare
quasi spazio se non ai personaggi. Nelle riprese americane è, al contrario, aereo,
spazioso, seppure plastico in certi momenti, come una cartolina, si diverte a
cercare le stravaganze di un lampione stradale e delle mille luci della città,
un bambino nella terra dei giocattoli, a far assaggiare anche a noi quaggiù un
pezzetto favoloso dell’America. Per i colori, come sempre, funziona alla
perfezione la fotografia, con un bilanciamento cromatico e di contrasti
apprezzabile e divertente, i giusti colori a sottolineare i giusti soggetti,
come per ogni tocco eccessivo di tonalità ce n’è sempre uno più cupo o tenue a
equilibrare. Anche i colori del cibo sono da tenere in considerazione, non a
caso vengono riprese in modo ottimale tutte le botteghe del paese, con i loro
colori vividi, mentre mancano gli interni di un MacDonald. E in questo, caro
regista, c’è una falla di democrazia.
I primi piani sono particolarmente piacevoli,
apprezzabilissimi quelli sulla protagonista femminile, la Schiavarelli, come
del già citato Marmone. Parliamo comunque di riprese desunte dalla tradizione
del reportage, che il regista sa fingere egregiamente, portando avanti fino
all’ultimo il suo gioco.
Forse non è stata felicissima l’idea di riportare tutto quel
numero di ospiti, in particolare quelli
celebri: passino gli attori consolidati, ma Vendola non risulta particolarmente
a proprio agio. Meglio in politica.
In conclusione, c’è da dire che è stata una scelta
difficile, osteggiata e combattuta, in cui qualcuno ci vede qualche forzatura e
mancata verità sulla trama. Di sicuro di vero ci sono i motivi scatenanti, le
cause, gli ideali, e a noi non importa, dopotutto, se la cosa sia andata veramente
come viene raccontata. Cirasola è riuscito nel tentativo di farne una commedia
di denuncia, ma leggera e divertente.
-R.
-R.
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