giovedì 28 febbraio 2013

SettimArte: Gerald McMorrow - Franklyn


ANNO: 2008
PAESE: Francia, Uk
REGIA: Gerald McMorrow
SCENEGGIATURA: Gerald McMorrow
FOTOGRAFIA: Ben Davis




Che cos’è Franklyn?
Inutile stare a sbizzarrirsi, non ne ricaverete niente: Franklyn è, sorpresa sorpresa, un nome su un campanello che suona nell’appartamento sbagliato.
Franklyn, anno 2008, fa parte del filone di film tratti da comic novel che…no, sbagliato.
Complice una campagna di promozione fuorviante (in calce il trailer italiano ) , l’unica opera di Gerald McMorrow è finita per essere assimilata ai coevi V per Vendetta e Watchmen. Non che non ci siano elementi in comune, se elemento in comune si può considerare una maschera da teschio.
I fumi, le guglie, la cupezza, il fanatismo religioso: ecco le caratteristiche di Città di Mezzo. Nessun riferimento tolkeniano, si tratta solo della malaccorta traduzione di Meanwhile City, letteralmente “Città Nel Frattempo” , il che la dice lunga: la città ci viene presentata immediatamente, avendo l’impressione che sarà la nostra ambientazione per tutto il tempo della pellicola. Sbagliato anche questo, visto che dopo pochi minuti pare chiaro che il regista ci sta conducendo su un binario parallelo tra la Londra contemporanea e quello di Meanwhile City, ed il dubbio, come diceva Borges, è: chi sogna chi? E se sogna perché?
Altri binari corrono: sono quattro storie parallele che apparentemente non hanno nulla da spartire, la giovane artista aspirante suicida, il ragazzo abbandonato sull’altare, il padre che cerca il figlio scomparso, l’ateo nella città oscura dalle mille religioni. Ognuno con una mancanza, una perdita, che cerca di colmare in modi disperati e illusori: la prima tenta il suicidio una volta al mese per esasperare madre e insegnanti, il secondo tenta di sostituire alla propria famiglia distrutta una fede cieca, il terzo va in cerca della sua amichetta d’infanzia, il quarto si professa paladino della giustizia andando in cerca del capo di una setta, un “visionario” (peccato che il termine possa descrivere altrettanto bene sé stesso) che ha ucciso una bambina.

Tramite un linguaggio visivo e narrativo lento e cadenzato, flemmatico e misurato come solo i film inglesi possono esserlo, McMorrow costruisce lentamente il proprio puzzle. Non è un caso se quello che sembra il personaggio onnisciente dell’opera, un addetto alle pulizie di un ospedale, sia spesso inquadrato mentre, da solo, compone torri e strutture con piccoli oggetti e zollette di zucchero. E, vero alter ego dello scrittore, annota tutto, anche se il cosa rimane un mistero per lo spettatore.
A fronte della pesantezza narrativa del film, l’opera è forte, appunto, di un intreccio notevole: come già dicevano altrove in questo blog, la scelta da effettuarsi in fase di stesura è spesso quella sulle priorità. Come accade tra alta letteratura e letteratura di genere, il dilemma è tra dare importanza alla trama in sé o alla ricerca, psicologica, ideologica, tecnica, artistica.
Franklyn fa un po’ tutto, divenendo croce e delizia dei cinefili: onnicomprensivo, illuminato, eclettico, eppure purtroppo poco approfondito in alcuni punti, McMorrow pare preferire dare un assaggio di tutto e questo a ogni livello.
Partiamo dalle citazioni gothic, con le metropoli futuristiche, al limite con lo steampunk, buie e piene di confusione come lo sono Gotham City (Batman, 1989) , la Detroit de Il Corvo, la Los Angeles di Blade Runner, la Londra di Arancia Meccanica, citata anche nell'inseguimento notturno e nel gusto dandy dei costumi, proseguendo con gli intrecci paradossali dal sapore fantascientifico, sulla scia di Donnie Darko, alla composizione a matrioska, rimando a Christopher Nolan, senza dimenticare però una traccia di giusta psicologia, un velo di noir, un pizzico di thriller, il tutto condito dalle musiche dei Malachai, che in certi tratti rimandano, a loro volta, ai Television di Tom Verlaine.

Importante la doppia scena che vede citata La morte della Vergine di Caravaggio, opera scandalosa all’epoca della sua presentazione, come scandalosa è tutta l’opera di Emilia, vittima della visione in cui il quadro prende vita davanti a lei in una corsia di ospedale.
Una formula del genere è tanto esplosiva quanto scomoda e ciò è un peccato, perché il film regala vere chicche, in primis la pregiata fotografia, fatta di chiaroscuri decisi, luci mirate, senza eccessi e sbavature, tanto neutre da non fare distinguere il giorno dalla notte in alcune inquadrature, compresse e riempite da architetture gotiche e metropolitane nelle esterne, barocche e industriali nelle interne. A tal proposito, difficile non notare la versatilità della macchina da presa, la sua adeguatezza in ogni scena. Notiamo con quanta timidezza la camera si muove negli interni della Londra dei nostri tempi, nell’atelier di Emilia, l’artista, nella casa di Esser, il padre, di nascosto, come nella migliore tradizione dei film horror, in cui il regista prende per qualche attimo il punto di vista del serial killer e ci fa vedere la scena coi suoi occhi. Importante, perché vedremo che proprio Emilia produrrà un lavoro accademico impostato proprio sul seguire e riprendere sconosciuti. Al contempo le riprese a Meanwhile City sono aeree, immense, vertiginose, atte a dimostrare da un lato la maestosità (riprese dall’alto, panoramiche) , dall’altro lo straniamento (riprese dal basso, interni) .
Si tratta di un complesso gioco di molteplici doppi personaggi e molteplici doppie versioni, il tutto reso da un montaggio alternato da seguire rigorosamente passo passo.

“Il cantastorie era così abituato alle sue fantasie che non importava quanto fosse bella la realtà. Non gli bastava. Non sarebbe mai bastata”
L’opera è ahimè intrisa di citazioni che amiamo definire “le perle segnalate” , ossia i classici stilemi da film, le frasi illuminate e profonde che risulta difficile immaginare in un contesto reale. La frase appena citata, però, è centrale: riusciranno i nostri eroi a scardinarsi dall’amato baco di seta delle proprie illusioni, del dolce cullarsi nel proprio mondo fatato e prendere coscienza di ciò che avviene intorno a loro? I nostri quattro protagonisti lo faranno, drasticamente e brutalmente, con un colpo di pistola alla persona sbagliata, che ci fa fare un sonoro tonfo, a tutti, nel mondo reale, a cercare di mettere insieme i fili della narrazione sotto una pioggia torrenziale. E allora vanno al loro posto le  frasi ambigue, i riferimenti, le mezze parole.
Sebbene la recitazione pecchi in alcuni punti sappia di legno (Ryan Philippe che funziona meglio con la maschera che senza) , ma raggiunge anche vette inaspettate (o forse no: Eva Green si riconferma degna erede di Michelle Pfeiffer nel classico ruolo della bella psicopatica) , i personaggi risultano alquanto verosimili, seppure con le loro storie ai limiti del paradosso. Sembra una riconferma della massima secondo cui la realtà supera l’immaginazione. Difatti, a fine visione, mentre abbiamo appurato e dato per buona la “irrealtà” di Meanwhile City, risultiamo spiazzati da come le molteplici linee riescano a incrociarsi in un unico punto, e così generare il caos, anche solo per pochi attimi: non sappiamo infatti se i binari dei protagonisti si divideranno di nuovo, appena dopo lo schermo nero.
Opera che, sebbene non invogli la seconda visione, va rivisto e ri-apprezzato.

-R.



venerdì 22 febbraio 2013

Friday boulevard: the best of the week

Si prospetta un weekend intenso, cari lettori: non tanto per le prospettive di una movida animata ma perchè siamo in pieno clima di elezioni. Posto che non è mio dovere fare satira o esternare il mio pensiero politico (piuttosto confuso, fra le altre cose) vorrei invitare tutti i cittadini maggiorenni a ricordare che il voto è un diritto ed un dovere, a prescindere del proprio colore politico.

Detto questo passiamo all'angolo delle news del venerdì: partiamo con la mostra di Chagall  che si tiene a Parigi presso il  Musée du Luxembourg, dove saranno esposte un centinaio di opere del pittore russo naturalizzato francese. Visto che è passato San Valentino potrebbe essere un'ottima mossa per visitare Parigi ed ammirare quello che, personalmente, reputo uno dei pittori più significativi del '900 europeo.
Sempre da il giornale dell'arte ho letto un articolo che definirei, come minimo, preoccupante: sto parlando dell'allarme sicurezza dei musei della Lombardia, sembrerebbe infatti che su 307 musei circa il 33% sia sprovvisto di impianti anti-incendio ed uscite di emergenza! Ma vogliamo tutelarlo e valorizzarlo questo nostro tesoro culturale?
Da artribune, invece, ho letto del festival "Visioni d'arte" che si tiene presso il Museo Diocesano di Milano, dove l'arte e l'architettura sono raccontate con film e documentari, insomma un festival davvero interessante che, chi ha la fortuna di capitare dalle parti di Milano, dovrebbe andare a vedere!

Per concludere, in vista della serata degi oscar lascio una piccola considerazione sul ruolo degli effetti speciali hi-tech nella nuova filmografia e, per chi si diletta di buona musica, l'anteprima dell'album "Unstoppable momentum" che segna il ritorno di Joe Satriani!

Un buon weekend a tutti!

                                                                            - P.

giovedì 21 febbraio 2013

Una finestra sul mondo


La felicità e il miglioramento della condizione umana hanno sempre avuto il posto d'onore nella scala dei desideri degli individui, sebbene siano obiettivi piuttosto difficili da raggiungere.
L'impossibilità nel sanare la malinconia di stampo decadente e una sempre più acuta insoddisfazione verso la il proprio tempo, hanno spinto gli uomini a rifugiarsi in diverse vie di fuga per evitare il raffronto con la triste realtà e con la loro impotenza verso il cambiamento.
L'argomento dell'articolo di oggi è proprio legato a uno di questi espedienti, una scappatoia che si eclissa un po' sotto l'ombra dei tipici paradis artificiels come alcool e oppio: questa è la  fenêtre, trampolino di lancio verso mondi lontani e incontaminati, ma allo stesso tempo vincolo per l’immaginazione.
Hopper
Uno degli esempi più lampanti che ci viene offerto dalla letteratura francese è la Madame Bovary di Flaubert, anima inquieta e insoddisfatta della sua esperienza da “mediocre borghese”. Emma è una donna disillusa: credente in una scalata e in un rinnovamento sociale dopo il matrimonio, si trova in realtà ben lungi dal suo sogno: passa i suoi lunghi après-midis immaginando una vita differente da quella che conduce. Con la testa fra le mani getta lo sguardo fuori e contempla il paesaggio che si intravede dalla sua finestra: i contorni della vegetazione e i raggi solari rendono il giardino un luogo quasi magico, nel quale la natura mostra la sua parte migliore, non senza un velo di "vago e indefinito".
La luce che illumina il prato tende ad infrangersi tra i petali dei fiori e permette ad Emma di ridipingere i contorni degli oggetti. Ecco quindi che la finestra apre le porte ad un mondo esotico, in forte opposizione alla bassezza e alla mediocrità della sua società, che costringerà la protagonista ad abbandonarsi all'adulterio senza però raggiungere l'appagamento tanto ricercato.

Restando all'interno dei confini francesi, mi proietto in un clima più bohémien e mi collego al poète maudit per eccellenza, Charles Baudelaire. In tutta la sua poetica ricorre il tema della fenêtre, con espliciti riferimenti anche al materiale con il quale è costruita, il vetro. Esso permette al poeta di abbandonarsi alla fantasia, di esplorare mondi lontani ed esotici, di viaggiare verso l’ignoto, ma allo stesso tempo è un fastidioso impedimento per intraprendere il volo decisivo verso l’Assoluto. Secondo Baudelaire infatti non esiste altro metodo che la morte, le dernier voyage, per arrivare e ricongiungersi all'Ideale.
Sempre riferendoci ai figli dello Spleen, anche in Verlaine troviamo una grande importanza data alla finestra: la sua funzionale apertura verso l'esterno permette al poeta di abbandonarsi alla contemplazione e all'osservazione del "di fuori", ossia la realtà che c'è al di là della sua cella di prigione (nella quale era stato rinchiuso dopo aver sparato al suo amico-amante Rimbaud per gelosia, nda). Verlaine prende in mano la sua piuma e riflette sulla sua vita e sullo scorrere del tempo, tra un verso e l'altro di Sagesse (1881).
Spostandoci nel panorama letterario "di casa", mi riaggancio alla non casuale espressione "vago e indefinito", riferendomi chiaramente a Giacomo Leopardi. Avvolto da un'atmosfera tardo romantica, anche al recanatese    piaceva lasciar volare via i malinconici pensieri dalla sua finestra: a rallegrare il suo studio “matto e disperatissimo” troviamo una Silvia che con il suo canto entra in casa sua e lo distoglie dalle sue "sudate carte", o la figura di una contadinella che rincasa con dei fiori tra le mani. L’immaginario leopardiano prende forma attraverso scene di vita quotidiana che il poeta si trova ad analizzare, non senza una punta di titanismo e distacco dal mondo reale.

Mantegna, Camera degli Sposi
Stesso interesse per il suddetto tema ci viene proposto dalla storia delle arti figurative, nella quale diversi artisti si sono misurati con personaggi intenti a contemplare il paesaggio al di là del lucernario.Nel Rinascimento la finestra aveva allo stesso tempo sia una funzione di veduta sul mondo esterno che di esercizio sulle recenti scoperte prospettiche, come si può ben ammirare nella Camera degli Sposi di Mantegna.
Con il passare degli eventi e con la conseguente affermazione della classe borghese gli interessi si prospettano verso la fabbrica e l'industria, lasciando iscritte tra le mura casalinghe la sfera privata e sognatrice.
La casa non è più solo lo spazio dove rifugiarsi dalle intemperie, ma è anche ciò che separa il familiare dall'estraneo.


Vermeer

Ecco quindi il popolo della casa, quello dedito alle attività domestiche e alla crescita dei figli, quello che comprende tutti coloro che sono alienati da una società progressista e in continuo movimento, nella quale l'unico motto che vige è "nothing but facts", tanto per citare Dickens.

Vermeer ci regala una bella immagine della vita casalinga "al di qua" della finestra: c'è chi sceglie di vivere in maniera tranquilla e distaccata voltando le spalle alla realtà esterna e c'è chi invece è turbato dal desiderio di uscire e di iscriversi nella società.

Considerando in maniera conclusiva quello che significa per l'uomo andare "oltre", mi soffermerei anche nell'immediato moderno, su una finestra che non si apre fra due pareti, ma che compare davanti a noi in maniera virtuale.
A mio parere, anche lo stesso utilizzo di Internet può essere considerato un'evasione: chi lo ha detto che la rete ha soltanto scopi lavorativo-informativi?


A pensarci bene ed estraniandomi dal mio ruolo di scrittrice anche io sono caduta nello stessa situazione che presento ora a voi lettori: magari dietro a questo articolo c'è l'esigenza di evadere da settimane dure ed impegnative e la volontà di abbandonarsi al piacere che solo l'Arte a volte sembra regalare.
La mia finestra oggi non è quella che si affaccia su un triste cortile residenziale, ma è quella che si apre a queste righe, sperando che regalino anche a voi le stesse emozioni che concedono a me.
                                                                                                   
                                                                                                               - Federica


                                                                                                                   




lunedì 18 febbraio 2013

Parliamo un po' di noi...

Ieri, mentre ero alle prese con un lavoro da completare entro mercoledì, mi sono trovato a fare una breve riflessione: avete presente quelle fantasmagorie psichedeliche che ognuno vive in momenti di stress profondo, durante le quali si trova a fare dei bilanci della propria vita?

Bene, è effettivamente quello che è successo a me.
Mi sono trovato, così, a ripercorrere la velocissima evoluzione che la mia vita ha subito negli ultimi sei/sette mesi ed, ovviamente, ho gettato subito un pensiero a questo blog, che, casualmente, proprio ieri festeggiava i suoi primi 4 mesi di vita e si avvicina sempre di più al traguardo delle 5000 visite.
Che dire... Innanzitutto un GRAZIE: prima di tutto alla persona che mi ha ispirato nel realizzare questo, poi a Michele che mi è stato vicino nelle prime settimane di vita di questo progetto, alle mie due splendide collaboratrici Federica e Raffaella, ad Andrea il nostro webmaster (che ha una pazienza infinita) e soprattutto a voi, cari lettori, che ci seguite e leggete i nostri articoli! Un grazie veramente di cuore!
Ho deciso, quindi, di raccontare un po' le vicissitudini passate di questo blog e di anticipare (nei limiti del concesso) i suoi sviluppi futuri.
L'idea del blog "The Philosopher's Cave" nasce per caso, un afoso pomeriggio di Giugno 2012 mentre impegnato con un esame particolaermente gravoso: mio malgrado sono iscritto ad una facoltà ingegneristica e non mi piace ciò che faccio, ho sempre amato la storia dell'arte e, più in generale, tutto ciò che ha a che vedere con il pensiero umano, ma per cause di forza maggiore sono finito in mezzo agli ingegneri edili. La cosa mi ha creato sin da subito problemi e, nonostante sia praticamente pari con gli esami, lo stress e la frustrazione si facevano sentire ed avevo bisogno di una valvola di sfogo: ho provato con la palestra ma non mi è bastato, poi con la musica ma neanche quel vecchio hobby riusciva a rivitalizzarmi, infine con la meditazione ma ancora una volta stress ed insoddisfazione aleggiavano nella mia vita. Per puro caso incontro, per strada, la mia professoressa di arte alle scuole medie, la persona che mi ha trasmesso l'amore per questa disciplina e, chiacchierando, lei mi consiglia di iniziare a scrivere qualcosa, sia per esercitarmi nella scrittura sia per sfogarmi: l'idea non mi è sembrata male e così decido di mettere su un blog dove avrei riversato le mie riflessioni.
A causa della mia somma incompetenza con i mezzi informatici, coinvolgo il mio amico Michele, che mi aiuta a creare questo blog e a cui devo tutto il lavoro grafico: ora il mio angolo virtuale era pronto e potevo cominciare a scrivere... E in effetti mi sentivo davvero meglio!
Comincio a mandare a degli amici le mie creazioni e fra una cosa e un'altra coinvolgo Raffaella, che inizialmente correggeva i miei scritti (dopo 4 anni di ingegneria sfido a scrivere ancora bene) e che poi sarebbe entrata a far parte di questo progetto con la sua conoscenza del cinema e della musica. Poco dopo, chiacchierando su facebook, ritrovo Federica, una mia vecchia conoscenza e scopro che anche lei è appassionata di arte ed ha un blog: dopo alcuni scambi di opinioni le propongo di unirsi al mio progetto e lei accetta entusiasta. Nel frattempo il blog cominciava ad avere un discreto numero di visite ed io stavo passando un periodo nero ed avevo bisogno di qualcuno che mi aiutasse con questa idea che mi stava letteralmente scoppiando fra le mani ma che, a causa di una serie di circostanza nefaste, stavo trascurando. Con Raffaella e Federica il blog smette di essere un gioco, uno sfogo e si trasforma piano piano in un progetto reale, che unisce tre persone con vissuti diversi (e di diverse provenienze) ma con la stessa passione. A dicembre arrivano le tanto agognate 1000 visite che, ben presto, diventano 2000 e crescono a non finire fino ad arrivare alle quasi 5000 di adesso.
Ed il futuro cosa ci riserva?


Beh... credo che vi meritiate qualche piccola anticipazione, ma non voglio dire troppo e quindi mi terrò molto breve: fra poco il blog verrà molto rinnovato (anche grazie ad Andrea il webmaster, ultimo arrivato in famiglia), ci saranno molti contenuti multimediali, nuovi canali e anche voi lettori verrete coinvolti molto di più! Di più non posso dire ma se resterete sintonizzati... ne vedrete davvero delle belle!
Un abbraccio a tutti!


                                                                                                   - P.

venerdì 15 febbraio 2013

Friday boulevard: the best of the week

Grandi notizie dal fronte, in questa settimana appena trascorsa, in cui sono fioccati cuoricini, abbandoni di alte cariche, canzoni, tribune politiche e altri cuoricini.
Una fresca fresca viene dal beneamato Philip K.Dick, compianto e prolifico autore di fantascienza che, proprio il giorno dedicato agli innamorati, ci fa un regalino postumo: è uscito proprio ieri l'ultimo inedito, Il cerchio del robot, di cui proponiamo, tratte da wired.it, le prime pagine. Dobbiamo sperare che anche questo sarà adattato in un'opera cinematografica? Ricordiamo che da opere dello scrittore sono stati, appunto, tratti una sequela di film. I più famosi: Blade Runner, Atto di forza (forte di un recente remake) , Minority Report e A scanner darkly.
Sempre parlando di cinema, news anche dal nostro J.J.Abrams, che, dopo essersi attirato le critiche dell'ex capitano Kirk (William Shatner) per essersi arraffato sia il franchise di Star Wars che quello di Star Trek, pensa di bissare la doppietta riportando sullo schermo gli storici giochi Portal e Half-life.

Sul versante artistico, riceviamo l'allarmante notizia che le opere I girasoli, di Vincent Van Gogh, stanno andando "a fuoco" : responsabili, i led dei musei in cui sono ospitati.
Inoltre, sempre parlando di grandi classici, scoperta in Svizzera una sorella più "giovane" della Gioconda. Tranquilli però, a quanto pare la paternità è sempre leonardesca, stando alla geometria e alla sensazione, comune alla gemella più famosa, che lo sguardo del soggetto segua costantemente lo spettatore. Chissà che sarà anche quest'opera al centro di un complotto internazionale come ne Il Codice Da Vinci?

mercoledì 13 febbraio 2013

Treia è un mito: reportage di un incontro con Philippe Daverio

Febbraio corto e amaro, era solito dire il mio maestro: di sicuro è un mese sempre abbastanza intenso, e noi ve lo confermiamo! Siamo sommersi da simulazioni di terza prova (Federica) o esami universitari (tipo il sottoscritto), nel migliore dei casi si sta a letto con l'influenza (Raffaella)... Quindi vogliate scusarci se siamo stati un po' latitanti nell'ultimo periodo!
L'articolo di oggi è un piccolo reportage di quella che, per me, è stata un'esperienza indimenticabile: un incontro ravvicinato (del terzo tipo, insomma) con Philippe Daverio, il critico d'arte che conduce Passepartout e che reputo uno degli uomini più colti d'Europa, del resto è proprio dalla sua fantastica trasmissione che ho preso l'idea di aprire questo blog!


Era venerdì quando, entrando su facebook, noto che Federica mi ha pubblicato qualcosa in bacheca e leggo un link a Cronache Maceratesi che mi informava che l'indomani il mio idolo sarebbe stato l'ospite d'onore di questa manifestazione per promuovere la storia del comune di Treia. Incurante dell'allerta meteo, della neve, delle strade ghiacciate e della mia macchina tutt'altro che affidabile ho deciso che mi sarei messo in viaggio per Treia per non farmi sfuggire l'occasione di incontrare un personaggio del calibro di Daverio.
Dopo un viaggio di andata abbastanza travagliato (svoltosi in compagni degli AC/DC che sono "a prova di neve") arrivo finalmente a destinazione: la conferenza si è svolta presso il magnifico teatro comunale di Treia (piccola chicca: lo sapevate che le Marche hanno la più grande densità di teatri di tutto il mondo? Una simpatica curiosità che ci ha svelato il critico d'arte) che, nonostante il freddo e l'allerta neve era davvero gremito!


Mi sistemo comodamente in sala ed aspetto trepidante l'arrivo di Daverio, temendo che la neve possa avergli impedito di prendere parte alla manifestazione: in effetti già in sala, visto e considerato la mezz'ora buona di attesa, si iniziava a vociferare che il critico d'arte non fosse venuto, ma ecco che all'improvviso entra in scena una ragazza che presenta la manifestazione ed introduce uno dopo l'altro le autorità e gli ospiti, annunciando per ultimo proprio Philippe Daverio che sale sul palco fra gli applausi della gente.  
Abbigliato, come al solito, con il suo stile un po' sopra le righe, con accostamenti di scacchetti, righine, pois e colori piuttosto psichedelici dimostra sin da subito di essere bizzaro non solo nel vestirsi ma anche nei modi di fare: sembra uscito proprio da una qualche novella ottocentesca. Eppure, nonostante la sua stranezza, emana un carisma straordinario: prende il microfono e lo avvicina all'altoparlante del suo iPhone per far ascoltare l' "Inno ad Iside" dal "Flauto Magico" di Mozart (dice lui stesso "un trucco di basso teatro") per inaugurare a modo suo la conferenza e poi si siede ascoltando interessato gli interventi degli altri due ospiti, "Luigi Lanzi: il vero modo di illustrare le antiche cose”, della professoressa Anna Santucci (Università di Urbino “Carlo Bo”) e "Archeologia a Treia: una storia di ricerche e valorizzazione da Fortunato Benigni al 3D" del professor Roberto Perna (Università degli Studi di Macerata). A questo punto tocca a Philippe Daverio prendere la parola, illustrando il tema del culto di Iside (che i Romani hanno fuso con la dea Trea), che egli definisce una dea "cult", grazie alla quale gli antichi contadini guerrieri morigerati scoprono che il lusso fa bene alla vita. Un intervento che ho apprezzato moltissimo, nel quale Daverio ha spaziato dal colto al popolare, con una punta di malizia ma sempre con la massima eleganza e finezza, puntando i riflettori sul tema di "classico" e "moderno": la provocazione è proprio nell'evidenziare come il gioco della cultura sia tirare palle in aria senza farle cadere per terra, come un giocoliere e mostrando come la vera Europa non sia quella dello "spread" o della "moneta unica", ma quella delle culture, la prima energia sono le idee, poi vengono i soldi, un messaggio che, in questi tempi di crisi, è quasi commovente.
In mezz'ora Daverio fa una lezione formidabile, spaziando dalla mitologia romana a quella egizia, passando per la storia ed infine mostrando la differenza fra mla ricerca della citazione nel passato e la ricerca di ciò che, dall'antichità, vive ancora nel presente, la cultura è provocazione ed il passato ha valore perchè serve a fabbricare il futuro.
Dopo gli applausi la folla esce dal teatro e nonostante la tarda ora decido di trattenermi ancora un po' per avere la possibilità di incontrare da vicino il mio idolo, il suo intervento mi aveva reso più entusiasta che mai. Sono rimasto sorpreso della giovialità con cui mi ha trattato e di come, alla proposta di farci una foto insieme, chiedendo alla ragazza di scattarne un'altra perchè la prima era venuta mossa e dicendo alla fine "Giovanotto, vicino a lei sembro ancora più brutto!".
Non dimenticherò mai questo pomeriggio, che mi ha fatto capire la sostanziale differenza fra chi è "erudito" e non fa altro che riempirsi la testa di informazione e fra chi, invece, è "colto", vive ciò che ha studiato ed è capace di giocare con quanto ha appreso in vari registri... E non mi importa se alla fine sono tornato a casa tardissimo ed ho rischiato di abbracciare un guard-rail con la macchina che mi slittava sul ghiaccio, per me sarà il ricordo di un sogno che si è avverato e la conferma ulteriore di come la cultura di un uomo sia stata capace di riunire un paese in un sabato pomeriggio, per fargli riscoprire la sua identità.

    
                                                                                                                     - P.



mercoledì 6 febbraio 2013

SettimArte: Terry Zwigoff - Ghost World


REGIA: Terry Zwigoff
ANNO: 2001
PAESE: USA
SCENEGGIATURA: Daniel Clowes, Terry Zwigoff
FOTOGRAFIA: Affonso Abbeato



Reduce dal successo dell’opera Crumb, sul celebre fumettista statunitense - autore, tra le altre cose, della copertina di Cheap Thrills, di Janis Joplin – Terry Zwigoff, dopo sette anni, ci riprova.
Enid (Thora Birch) e Seymour (Steve Buscemi)
Questa volta però prende a modello un altro caposaldo dei comics made in USA, sarebbe a dire Daniel Clowes. Artista piuttosto sconosciuto in Italia, Clowes è, d’altro canto, osannato oltreoceano ancora oggigiorno, col suo modo particolarmente brillante, soffuso e al contempo incisivo, di fare opera di satira e al contempo introspezione psicologica sulla cosiddetta Generazione X, quella cresciuta tra gli anni ’70 e gli anni ’80, quella figlia del consumismo, delle metropoli spersonalizzanti, della disoccupazione e di Internet.

Clowes aveva pubblicato, a partire dal 1993, Ghost World, una comic novel divenuta subita un cult dell’epoca. La storia, incentrata sulla vita e sulle scelte di due ragazze fresche di diploma, residenti in una città non specificata nel Nord degli Stati Uniti, mescola tante piccole sub-trame, scorci, riflessioni, nel riflesso di un malinconico tramonto americano.
Il paragone non è squisitamente poetico: le strips, virate nella maggior parte in un azzurrino pallido, vogliono trasmettere proprio l’idea, come precisò l’autore, della luce e della sensazione che si prova rincasando verso quel periodo della giornata, specie in pomeriggi nuvolosi, quando la luce è soffusa e le ombre spariscono.Un artificio simile a quello usato nell’epoca del cinema in bianco e nero per trasmettere allo spettatore la sensazione di buio: i fotogrammi delle scene notturne venivano infatti letteralmente colorati di blu.
Ecco perché, nonostante le frecciatine e gli scherzi delle ragazze, le scene ai limiti dell’assurdo e i personaggi strambi quello che ci riesce, al massimo, è un sorriso amaro. L’idea di fondo, nel comic book come nel film, è che anche a voler fare le “dure” (atteggiamento di facciata) , le ragazze, come tutti, dovranno crescere e saranno per questo costrette a scegliere. Sono due mondi antitetici, destinati a esiti diversi, sebbene non ne possiamo contemplarne appieno i frutti: Rebecca, la più tranquilla tra le due, deciderà di omologarsi a quel mondo che tanto aveva criticato, trovandosi un lavoro serio, una casa, un fidanzato. 
Quella che rimarrà fuori dal coro, senza arte né parte, è Enid. La vedremo girare per la città nelle mise più stravaganti, perfino con una maschera in latex da Catwoman, ma la cosa sembra mascherare un baratro di interrogativi. La coppia di ragazze non può non ricordare la serie americana Daria, uscita a partire dal 1997 (ossia dopo l’ultimo numero di Ghost World) e le due ciniche protagoniste, Daria, appunto, e la sua amica Jane, entrambe liceali, dotate di un’ironia pungente e di grande acume intellettuale, nonché di disillusione e grandi aspirazioni, già consce del fatto che probabilmente non le realizzeranno mai; la somiglianza è lampante anche nel look e nell’aspetto, anche se, mentre quello di Daria risulta fuori dal coro per l’anonimia e per il mancato allineamento ai canoni della moda, quello di Enid è volutamente retro e appariscente.
Jane e Daria
Rebecca (Scarlett Johansson) e Enid (Thora Brch)
Prima di tutto, salta subito alla mente il pensiero che spesso gli individui che danno di sé un’immagine aggressiva e sopra le righe sono quelli più insicuri: a Enid viene fatto notare, quando si veste da punk ’77, che risulta parecchio fuori luogo. In verità, la riflessione è un’altra: il vintage, il ritorno ai canoni di genitori e nonni, è emerso proprio a partire dai Nineties, mascherando però una drammatica crisi di valori e di ideali (ne abbiamo già parlato altrove in questo blog) . Sebbene, almeno negli anni ’90, possiamo assistere ancora a elementi, ideali e mode tipiche del periodo, fino ai nostri giorni spesso il vintage equivale, anche inconsciamente, a un disagio sociale e culturale rispetto alla società contemporanea che porta a vivere nel passato e a osannarlo. E’ un processo che è sempre esistito, basti pensare alla mitica Età dell’oro decantata da Esiodo e quindi da Virgilio, nella imperitura caratteristica, tutta umana, che non è possibile accontentarsi, e che si rimpiange sempre quello che non si può più avere.

Sebbene il plot risulta modificato, per certi versi, rispetto al fumetto, il film segue una stessa storia di base: le due ragazze, Enid (Thora Birch, American Beauty) e Rebecca (Scarlett Johansson, L’uomo che sussurrava ai cavalli) , come dicevamo, si diplomano e iniziano subito a discutere dei loro progetti futuri. Mentre nel fumetto passavano l’estate a progettare un viaggio per visitare il college che Enid vorrebbe frequentare (ma non lo farà) , e a sperimentare vari tipi di relazione con l’altro sesso, nel film prendono in considerazione l’idea di andare a vivere insieme.
Per far ciò bisogna trovarsi un lavoro, cosa in cui Rebecca riuscirà, essendo, dopotutto, alquanto docile, ma non Enid, che si farà cacciare dopo appena un giorno di prova. La pellicola segue un percorso parallelo che vede entrare in scena Seymour (Steve Buscemi, Le iene, Il grande Lebowski) , amministratore alla direzione generale di Cook’s Chicken, una catena di fast food immaginaria. La brillante posizione professionale viene menzionata quasi con noncuranza. Sono difatti altre le caratteristiche dell’uomo, solitario ai limiti dell’asocialità e alquanto impacciato nelle relazioni, collezionista di 78 giri jazz, blues e ragtime dell’inizio del ‘900. Le due ragazze lo incontrano dopo avergli fatto uno scherzo crudele, ma Enid si avvicina a lui e finisce per essere coinvolta nei suoi interessi, tanto piombare nella sua vita e stravolgergliela, arrivando persino a trascinarlo in un sexy shop, e infine ad innamorarsene.
Con un comportamento che definiremmo un po’ da banderuola, un po’ da ragazzina infantile, Enid si barcamena molto male nel mondo di fantasmi in cui vive. L’autore e il regista - e l’attrice - sono stati magistrali nel rendere l’indecisione e i patemi d’animo del personaggio di Enid, specializzata nel prendere decisioni infelici, piene di dubbi, tornando spesso sui propri passi. Sicuramente manca di tempismo: quando le viene offerta una borsa di studio in arte, decide di accettarla quando ormai l’occasione è sfumata (anche per colpa sua) ; quando capisce finalmente di essere innamorata di Seymour, lui ha trovato un’altra; quando torna a pregare Rebecca di poter andare a vivere con lei, l’amica l’accetta, ma a malincuore, essendone rimasta già delusa.

L’(anti)eroina per cui avevamo fatto il tifo dall’inizio sembra perdere la partita. Quando decide di lasciare la città, nell’enigmatica scena finale, lo fa spogliata di quel look eccessivo che l’aveva contraddistinta, vestita come un hostess, tanto da sembrare un tentativo di omologazione, non voluto, ma semplicemente subito come scelta inevitabile. Scelta che non va comunque in porto: la ragazza aspetta l’autobus a una fermata cancellata da due anni. Tanto che si è pensato fosse una velata, tragica metafora per il suicidio della protagonista, sottolineato dal fatto che a quella fermata la ragazza spesso ci trovava un signore anziano in fervida attesa, ma è probabilmente solo la realizzazione del suo sogno di bambina che confida a Seymour, e che forse abbiamo immaginato un po’ tutti: prendere il primo treno, il primo mezzo disponibile, e andarsene, senza meta, per non tornare più. Si tratta di una scelta un po’ semplicistica e, appunto, infantile, come a sottolineare il non voler prendersi responsabilità, il nascondersi sotto le coperte quando suona la sveglia, il fuggire davanti ai problemi. Volendo mettere sul piano formativo, Enid non sembra avere sostegno familiare, vivendo sola con il padre e saltuariamente con la sua compagna, che non sopporta (memorabile quando, alla domanda della donna su cosa faccia nella vita, avendo lei contribuito a educarla, Enid risponde “Frequento un corso di recupero in arte per ritardati” ) . Rebecca, si specifica nel fumetto, ha una nonna che accudisce, e probabilmente questo l’ha portata a essere più matura e responsabile. Ma sono elucubrazioni che vogliono cercare risposte facili, giustificazioni plausibili, che in questo caso non servono a molto.

L'insegnante d'arte (Illeana Douglas)
Come dicevamo, l’opera (anzi, le opere) è piena di occasioni bizzarre. Prima di tutto, Enid che viene rimandata in arte quando chiaramente ha uno spiccato talento nel campo, tanto che disegna continuamente caricature della gente che incontra, per esempio “i satanisti” , che sono semplicemente una bislacca coppia di mezza età. C’è da citare anche l’insegnante d’arte di Enid, emblema dell’artista compiaciuto, ma con così poco talento da dover ripiegare sull’insegnamento, con esiti alquanto discutibili: molto divertenti le scene in cui osanna l’allieva che continua a propinarle “enigmatiche” sculture, ricoperte di posticci significati femministi solo per far colpo sull’insegnante, la quale non si accorge né tantomeno sa incoraggiare le reali doti degli allievi, piuttosto ignorandoli e puntando su una entusiastica quanto finta celebrazione di ogni aspetto artistico della vita, anche i più scontati e banali. Stessa inettitudine si riscontra nei commessi del videonoleggio in cui ciondolano le due ragazze, incapaci di distinguere tra 8 ½ di Fellini (e la citazione non sembra uno sterile omaggio, vista la vicinanza d’intenti tra il cinema felliniano neorealista e l’opera in oggetto) e Nove settimane e mezzo, di Adrian Lyne, o nella scialba ragazza del bar che definisce blues quella che sembra quasi una boy band, o, ancora, nell'avventore che spara musica a palla davanti a un negozio di generi alimentari, giustificando la cosa come libertà d'espressione, un po' come Radio Raheem in Fa' la cosa giusta, di Spike Lee. Osserviamo tutto con gli occhi impietosi delle protagonisti, che vedono, registrano e criticano tutto, senza nessuna motivazione valida, sicure che quello non è il mondo che vogliono, ma incapaci di trovare un’alternativa valida.
Una situazione che accomuna molti giovani, e non solo, ancora oggi. D’altronde, come sentiamo dire nel film, il mondo non è cambiato: ci odiamo sempre tutti, solo che il “politicamente corretto” e l’educazione di cui siamo imbevuti, volenti o nolenti, ci impedisce di farlo apertamente, e questo probabilmente è peggio ancora, creando, l’ipocrisia, ulteriore motivo di sconforto e incomprensione negli animi più sensibili.

Un mondo di fantasmi, quindi, sbiadito non tanto nei colori che caratterizzano il comic book, ma soprattutto nelle opportunità. Enid, nel fumetto, prima di prendere l’autobus, scopre la persona che sta riempiendo la città con la scritta “Ghost world” , ma arriva troppo tardi per acciuffarlo. Quella del titolo scritto ovunque è una presenza ossessiva e inquietante, quanto inspiegabile. Suona come il monito di un predicatore, come a dire “aprite gli occhi, finchè siete in tempo” , come un messaggio d’allarme.
Eppure la pellicola non appare così tetra a prima visione, riprendendo i colori e le illuminazioni tipiche della copertina di un fumetto (anche se in contrasto con quello in questione) , a tinte forti e vivide, merito di Affonso Abbeato, che ha fatto di questo tipo di fotografia il suo punto forte  (Great Balls of fire!) , e inquadrature spesso fisse, senza molto movimento, proprio come accade nelle strips. La stessa Enid fa dei colori il suo punto forte: dai capelli verdi, allo scamiciato rosso, alla gonna scozzese di un verde carico. Da notare comunque delle riprese interessanti, come le soggettive, ad esempio, quella del bislacco signore in carrozzella che si presenta nel bar in cui lavora Rebecca, o le lunghe carrellate, spesso utilizzate in montaggio alternato: lampante è quella iniziale, in cui, all’allegro spezzone danzereccio di Gumnaam, thriller bollywoodiano anni ’60, sono intervallate carrellate che ritraggono i vicini di Enid nei loro appartamenti, come spiati da un occhio fugace fuori dalle loro finestre, tutti stravaccati a guardare la TV, senza curarsi dei bambini che armati di mazza da baseball sfasciano mobili e giocattoli.

Scena da Gumnaam
E’ infatti già dai primi secondi, con la famosa Jaan Pehechaan Ho, che la traccia musicale sarà un elemento predominante. Non è un film musicale, sia chiaro. Caratteristica del film è, infatti, il non seguire un andamento iscrivile a un qualche modello: non è ellittico, né lineare, né con colpi di scena particolari, non si può nemmeno definire un vero spaccato di vita. Le situazioni sono descritte in un modo del tutto naturale, come a sprazzi. Il tema musicale, però, la fa da padrone dall'inizio, essendo l'unico, inquietante filo conduttore. E’ così che, sebbene Enid s’interessasse già prima alla musica (punk, a quanto pare) , quando il pezzo Devil got my woman, di Skip James, consigliatole da Seymour, risuona nella sua stanza, tanto da farla uscire di corsa dal bagno, con un’espressione sul viso, come a dire “Ehi, che succede qui?” , abbiamo trovato la chiave di volta. Dopotutto il blues appare una scusa come un’altra per fare, per qualche momento, estraniare la ragazza, e farle trovare nuovi metodi di esaltazione del passato. C’è da dire che successivamente si mostrerà in un certo senso interessata al genere, ma c’è qualcosa che ci suggerisce che lo faccia semplicemente per avvicinarsi a Seymour, che d’altronde, dopo essersi definito un emarginato, esclama “Anch’io odio i miei interessi” , con un interessante suggerimento alla riflessione, e anche all’autoriflessione, come se Twigoff, e prima di lui Clowes, spingesse lo spettatore a chiedersi “Sono anch’io così?” . L’idea che viene suggerita è che spesso la maniacalità è solo la copertura di un vuoto interiore, ed è per questo che la musica, qui, assume un ruolo funzionale per avvicinare due mondi altrimenti inconciliabili, quello di Enid e quello di Seymour, e di tutti i fantasmi che ruotano attorno a loro.



-R.