mercoledì 6 febbraio 2013

SettimArte: Terry Zwigoff - Ghost World


REGIA: Terry Zwigoff
ANNO: 2001
PAESE: USA
SCENEGGIATURA: Daniel Clowes, Terry Zwigoff
FOTOGRAFIA: Affonso Abbeato



Reduce dal successo dell’opera Crumb, sul celebre fumettista statunitense - autore, tra le altre cose, della copertina di Cheap Thrills, di Janis Joplin – Terry Zwigoff, dopo sette anni, ci riprova.
Enid (Thora Birch) e Seymour (Steve Buscemi)
Questa volta però prende a modello un altro caposaldo dei comics made in USA, sarebbe a dire Daniel Clowes. Artista piuttosto sconosciuto in Italia, Clowes è, d’altro canto, osannato oltreoceano ancora oggigiorno, col suo modo particolarmente brillante, soffuso e al contempo incisivo, di fare opera di satira e al contempo introspezione psicologica sulla cosiddetta Generazione X, quella cresciuta tra gli anni ’70 e gli anni ’80, quella figlia del consumismo, delle metropoli spersonalizzanti, della disoccupazione e di Internet.

Clowes aveva pubblicato, a partire dal 1993, Ghost World, una comic novel divenuta subita un cult dell’epoca. La storia, incentrata sulla vita e sulle scelte di due ragazze fresche di diploma, residenti in una città non specificata nel Nord degli Stati Uniti, mescola tante piccole sub-trame, scorci, riflessioni, nel riflesso di un malinconico tramonto americano.
Il paragone non è squisitamente poetico: le strips, virate nella maggior parte in un azzurrino pallido, vogliono trasmettere proprio l’idea, come precisò l’autore, della luce e della sensazione che si prova rincasando verso quel periodo della giornata, specie in pomeriggi nuvolosi, quando la luce è soffusa e le ombre spariscono.Un artificio simile a quello usato nell’epoca del cinema in bianco e nero per trasmettere allo spettatore la sensazione di buio: i fotogrammi delle scene notturne venivano infatti letteralmente colorati di blu.
Ecco perché, nonostante le frecciatine e gli scherzi delle ragazze, le scene ai limiti dell’assurdo e i personaggi strambi quello che ci riesce, al massimo, è un sorriso amaro. L’idea di fondo, nel comic book come nel film, è che anche a voler fare le “dure” (atteggiamento di facciata) , le ragazze, come tutti, dovranno crescere e saranno per questo costrette a scegliere. Sono due mondi antitetici, destinati a esiti diversi, sebbene non ne possiamo contemplarne appieno i frutti: Rebecca, la più tranquilla tra le due, deciderà di omologarsi a quel mondo che tanto aveva criticato, trovandosi un lavoro serio, una casa, un fidanzato. 
Quella che rimarrà fuori dal coro, senza arte né parte, è Enid. La vedremo girare per la città nelle mise più stravaganti, perfino con una maschera in latex da Catwoman, ma la cosa sembra mascherare un baratro di interrogativi. La coppia di ragazze non può non ricordare la serie americana Daria, uscita a partire dal 1997 (ossia dopo l’ultimo numero di Ghost World) e le due ciniche protagoniste, Daria, appunto, e la sua amica Jane, entrambe liceali, dotate di un’ironia pungente e di grande acume intellettuale, nonché di disillusione e grandi aspirazioni, già consce del fatto che probabilmente non le realizzeranno mai; la somiglianza è lampante anche nel look e nell’aspetto, anche se, mentre quello di Daria risulta fuori dal coro per l’anonimia e per il mancato allineamento ai canoni della moda, quello di Enid è volutamente retro e appariscente.
Jane e Daria
Rebecca (Scarlett Johansson) e Enid (Thora Brch)
Prima di tutto, salta subito alla mente il pensiero che spesso gli individui che danno di sé un’immagine aggressiva e sopra le righe sono quelli più insicuri: a Enid viene fatto notare, quando si veste da punk ’77, che risulta parecchio fuori luogo. In verità, la riflessione è un’altra: il vintage, il ritorno ai canoni di genitori e nonni, è emerso proprio a partire dai Nineties, mascherando però una drammatica crisi di valori e di ideali (ne abbiamo già parlato altrove in questo blog) . Sebbene, almeno negli anni ’90, possiamo assistere ancora a elementi, ideali e mode tipiche del periodo, fino ai nostri giorni spesso il vintage equivale, anche inconsciamente, a un disagio sociale e culturale rispetto alla società contemporanea che porta a vivere nel passato e a osannarlo. E’ un processo che è sempre esistito, basti pensare alla mitica Età dell’oro decantata da Esiodo e quindi da Virgilio, nella imperitura caratteristica, tutta umana, che non è possibile accontentarsi, e che si rimpiange sempre quello che non si può più avere.

Sebbene il plot risulta modificato, per certi versi, rispetto al fumetto, il film segue una stessa storia di base: le due ragazze, Enid (Thora Birch, American Beauty) e Rebecca (Scarlett Johansson, L’uomo che sussurrava ai cavalli) , come dicevamo, si diplomano e iniziano subito a discutere dei loro progetti futuri. Mentre nel fumetto passavano l’estate a progettare un viaggio per visitare il college che Enid vorrebbe frequentare (ma non lo farà) , e a sperimentare vari tipi di relazione con l’altro sesso, nel film prendono in considerazione l’idea di andare a vivere insieme.
Per far ciò bisogna trovarsi un lavoro, cosa in cui Rebecca riuscirà, essendo, dopotutto, alquanto docile, ma non Enid, che si farà cacciare dopo appena un giorno di prova. La pellicola segue un percorso parallelo che vede entrare in scena Seymour (Steve Buscemi, Le iene, Il grande Lebowski) , amministratore alla direzione generale di Cook’s Chicken, una catena di fast food immaginaria. La brillante posizione professionale viene menzionata quasi con noncuranza. Sono difatti altre le caratteristiche dell’uomo, solitario ai limiti dell’asocialità e alquanto impacciato nelle relazioni, collezionista di 78 giri jazz, blues e ragtime dell’inizio del ‘900. Le due ragazze lo incontrano dopo avergli fatto uno scherzo crudele, ma Enid si avvicina a lui e finisce per essere coinvolta nei suoi interessi, tanto piombare nella sua vita e stravolgergliela, arrivando persino a trascinarlo in un sexy shop, e infine ad innamorarsene.
Con un comportamento che definiremmo un po’ da banderuola, un po’ da ragazzina infantile, Enid si barcamena molto male nel mondo di fantasmi in cui vive. L’autore e il regista - e l’attrice - sono stati magistrali nel rendere l’indecisione e i patemi d’animo del personaggio di Enid, specializzata nel prendere decisioni infelici, piene di dubbi, tornando spesso sui propri passi. Sicuramente manca di tempismo: quando le viene offerta una borsa di studio in arte, decide di accettarla quando ormai l’occasione è sfumata (anche per colpa sua) ; quando capisce finalmente di essere innamorata di Seymour, lui ha trovato un’altra; quando torna a pregare Rebecca di poter andare a vivere con lei, l’amica l’accetta, ma a malincuore, essendone rimasta già delusa.

L’(anti)eroina per cui avevamo fatto il tifo dall’inizio sembra perdere la partita. Quando decide di lasciare la città, nell’enigmatica scena finale, lo fa spogliata di quel look eccessivo che l’aveva contraddistinta, vestita come un hostess, tanto da sembrare un tentativo di omologazione, non voluto, ma semplicemente subito come scelta inevitabile. Scelta che non va comunque in porto: la ragazza aspetta l’autobus a una fermata cancellata da due anni. Tanto che si è pensato fosse una velata, tragica metafora per il suicidio della protagonista, sottolineato dal fatto che a quella fermata la ragazza spesso ci trovava un signore anziano in fervida attesa, ma è probabilmente solo la realizzazione del suo sogno di bambina che confida a Seymour, e che forse abbiamo immaginato un po’ tutti: prendere il primo treno, il primo mezzo disponibile, e andarsene, senza meta, per non tornare più. Si tratta di una scelta un po’ semplicistica e, appunto, infantile, come a sottolineare il non voler prendersi responsabilità, il nascondersi sotto le coperte quando suona la sveglia, il fuggire davanti ai problemi. Volendo mettere sul piano formativo, Enid non sembra avere sostegno familiare, vivendo sola con il padre e saltuariamente con la sua compagna, che non sopporta (memorabile quando, alla domanda della donna su cosa faccia nella vita, avendo lei contribuito a educarla, Enid risponde “Frequento un corso di recupero in arte per ritardati” ) . Rebecca, si specifica nel fumetto, ha una nonna che accudisce, e probabilmente questo l’ha portata a essere più matura e responsabile. Ma sono elucubrazioni che vogliono cercare risposte facili, giustificazioni plausibili, che in questo caso non servono a molto.

L'insegnante d'arte (Illeana Douglas)
Come dicevamo, l’opera (anzi, le opere) è piena di occasioni bizzarre. Prima di tutto, Enid che viene rimandata in arte quando chiaramente ha uno spiccato talento nel campo, tanto che disegna continuamente caricature della gente che incontra, per esempio “i satanisti” , che sono semplicemente una bislacca coppia di mezza età. C’è da citare anche l’insegnante d’arte di Enid, emblema dell’artista compiaciuto, ma con così poco talento da dover ripiegare sull’insegnamento, con esiti alquanto discutibili: molto divertenti le scene in cui osanna l’allieva che continua a propinarle “enigmatiche” sculture, ricoperte di posticci significati femministi solo per far colpo sull’insegnante, la quale non si accorge né tantomeno sa incoraggiare le reali doti degli allievi, piuttosto ignorandoli e puntando su una entusiastica quanto finta celebrazione di ogni aspetto artistico della vita, anche i più scontati e banali. Stessa inettitudine si riscontra nei commessi del videonoleggio in cui ciondolano le due ragazze, incapaci di distinguere tra 8 ½ di Fellini (e la citazione non sembra uno sterile omaggio, vista la vicinanza d’intenti tra il cinema felliniano neorealista e l’opera in oggetto) e Nove settimane e mezzo, di Adrian Lyne, o nella scialba ragazza del bar che definisce blues quella che sembra quasi una boy band, o, ancora, nell'avventore che spara musica a palla davanti a un negozio di generi alimentari, giustificando la cosa come libertà d'espressione, un po' come Radio Raheem in Fa' la cosa giusta, di Spike Lee. Osserviamo tutto con gli occhi impietosi delle protagonisti, che vedono, registrano e criticano tutto, senza nessuna motivazione valida, sicure che quello non è il mondo che vogliono, ma incapaci di trovare un’alternativa valida.
Una situazione che accomuna molti giovani, e non solo, ancora oggi. D’altronde, come sentiamo dire nel film, il mondo non è cambiato: ci odiamo sempre tutti, solo che il “politicamente corretto” e l’educazione di cui siamo imbevuti, volenti o nolenti, ci impedisce di farlo apertamente, e questo probabilmente è peggio ancora, creando, l’ipocrisia, ulteriore motivo di sconforto e incomprensione negli animi più sensibili.

Un mondo di fantasmi, quindi, sbiadito non tanto nei colori che caratterizzano il comic book, ma soprattutto nelle opportunità. Enid, nel fumetto, prima di prendere l’autobus, scopre la persona che sta riempiendo la città con la scritta “Ghost world” , ma arriva troppo tardi per acciuffarlo. Quella del titolo scritto ovunque è una presenza ossessiva e inquietante, quanto inspiegabile. Suona come il monito di un predicatore, come a dire “aprite gli occhi, finchè siete in tempo” , come un messaggio d’allarme.
Eppure la pellicola non appare così tetra a prima visione, riprendendo i colori e le illuminazioni tipiche della copertina di un fumetto (anche se in contrasto con quello in questione) , a tinte forti e vivide, merito di Affonso Abbeato, che ha fatto di questo tipo di fotografia il suo punto forte  (Great Balls of fire!) , e inquadrature spesso fisse, senza molto movimento, proprio come accade nelle strips. La stessa Enid fa dei colori il suo punto forte: dai capelli verdi, allo scamiciato rosso, alla gonna scozzese di un verde carico. Da notare comunque delle riprese interessanti, come le soggettive, ad esempio, quella del bislacco signore in carrozzella che si presenta nel bar in cui lavora Rebecca, o le lunghe carrellate, spesso utilizzate in montaggio alternato: lampante è quella iniziale, in cui, all’allegro spezzone danzereccio di Gumnaam, thriller bollywoodiano anni ’60, sono intervallate carrellate che ritraggono i vicini di Enid nei loro appartamenti, come spiati da un occhio fugace fuori dalle loro finestre, tutti stravaccati a guardare la TV, senza curarsi dei bambini che armati di mazza da baseball sfasciano mobili e giocattoli.

Scena da Gumnaam
E’ infatti già dai primi secondi, con la famosa Jaan Pehechaan Ho, che la traccia musicale sarà un elemento predominante. Non è un film musicale, sia chiaro. Caratteristica del film è, infatti, il non seguire un andamento iscrivile a un qualche modello: non è ellittico, né lineare, né con colpi di scena particolari, non si può nemmeno definire un vero spaccato di vita. Le situazioni sono descritte in un modo del tutto naturale, come a sprazzi. Il tema musicale, però, la fa da padrone dall'inizio, essendo l'unico, inquietante filo conduttore. E’ così che, sebbene Enid s’interessasse già prima alla musica (punk, a quanto pare) , quando il pezzo Devil got my woman, di Skip James, consigliatole da Seymour, risuona nella sua stanza, tanto da farla uscire di corsa dal bagno, con un’espressione sul viso, come a dire “Ehi, che succede qui?” , abbiamo trovato la chiave di volta. Dopotutto il blues appare una scusa come un’altra per fare, per qualche momento, estraniare la ragazza, e farle trovare nuovi metodi di esaltazione del passato. C’è da dire che successivamente si mostrerà in un certo senso interessata al genere, ma c’è qualcosa che ci suggerisce che lo faccia semplicemente per avvicinarsi a Seymour, che d’altronde, dopo essersi definito un emarginato, esclama “Anch’io odio i miei interessi” , con un interessante suggerimento alla riflessione, e anche all’autoriflessione, come se Twigoff, e prima di lui Clowes, spingesse lo spettatore a chiedersi “Sono anch’io così?” . L’idea che viene suggerita è che spesso la maniacalità è solo la copertura di un vuoto interiore, ed è per questo che la musica, qui, assume un ruolo funzionale per avvicinare due mondi altrimenti inconciliabili, quello di Enid e quello di Seymour, e di tutti i fantasmi che ruotano attorno a loro.



-R.


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