martedì 25 dicembre 2012

Arte, società, comunicazione e social network: la parola a Francesco Orazi

Nonostante le festività siano arrivate noi di The Philosopher's Cave siamo dei lavoratori instancabili e vogliamo, a modo nostro farvi un regalo di Natale con questa intervista fatta a Francesco Orazi, professore in Sociologia Economica presso l'Università Politecnica delle Marche, una chiacchierata davvero interessante che ha ruotato intorno alla funzione comunicativa dell'arte e della sua evoluzione a livello sociale.


P: Buongiorno professore, visto che il mio è un blog di arte mi piacerebbe iniziare con il vedere come, secondo lei, da sociologo, l'arte può essere analizzata non da un punto di vista tecnico o critico ma prettamente sociale. Partendo dalle origini dell'uomo che funzione ha assunto l'arte?

F. Orazi: Beh, è una domanda sicuramente impegnativa... Cerchiamo di essere schematici perchè dal neolitico ad oggi è passato un bel po' di tempo! Forse, in una prima fase, se pensiamo alle rappresentazioni rupestri sono espressione di un'arte o comunque di una capacità di rappresentazione degli esseri umani che, come le relazioni sociali, è completamente dominata dalla dimensione sacra, cioè quel tipo di immagine segna il tentativo da parte degli esseri umani di dare delle risposte a quella natura che, di per sé, è completamente sacra. Con "sacra" intendo una natura poco conosciuta, una natura sulla quale gli individui non hanno manifestato nessuna forma di disincanto: il fulmine o il tuono non sono letti come fenomeni fisici, ma come manifestazioni sconosciute di un'entità che fa riferimento, nei popoli primitivi, ad una deificazione complessiva della natura; anche l'arte, quindi a mio modesto avviso, risente di questo clima di totale incantamento. Le cose, secondo me, iniziano a mutare con quello che i sociologi chiamano "processo di differenziazione" ossia il fatto che, piano piano, con l'acquisizione di nuove conoscenze, esperienze e nuove tecnologie gli esseri umani cominciano a dividere le loro sfere: una prima fondamentale divisione che è centrale per la sociologia strutturalista (in particolare per Durkheim) è la separazione fra la dimensione sacra e quella profana. In questo modo si realizza una situazione in cui il contesto sociale non è soltanto un qualcosa che fa riferimento alla grande potenza esplicita religiosa della natura, ma fa anche riferimento alle specifiche azioni umane: il profano è tutto ciò che si separa dal sacro e attiene le specifiche attività umane. È ovvio che questa prima differenziazione è molto importante perchè da anche il via alla prima formazione istituzionale in cui gli individui diventano ordinatori della loro vita, basta pensare a come una religione è finalizzata a stabilire una serie di divieti e ad organizzare una serie di trasgressioni a questi divieti, la trasgressione deve essere una cosa ben organizzata e seguire delle tempistiche precise, altrimenti i divieti non avrebbero alcun senso. Sempre in riferimento alla capacità di crescita della conoscenza umana e alla capacità di produzione tecnologica, si producono nel tempo ulteriori differenziazioni: quando per esempio gli esseri umani iniziano a costruire le prime città, iniziano anche a determinare tutta una nuova serie di elementi, che si staccano dal sacro e dal profano, per certi versi il sacro rimane confinato alla dimensione dell'aldilà (basta pensare alle tradizioni culturali che vanno dalla Mesopotamia, all'Egitto agli Etruschi), una parte consistente della vita degli esseri umani era data dalla netta separazione fra il mondo dei morti e quello immanente dei vivi: il mondo dei morti era considerato molto più importante. Cosa c'entra l'arte con tutto questo? C'entra molto, basta pensare alla maestosità delle piramidi o alle sepolture etrusche sono una commistione di arte e necessità di rappresentare il mondo dei morti, hanno a che fare con la necessità "foscoliana" della memoria (se volessimo fare un grosso salto temporale). La dimensione estetica diventa un ulteriore elemento di dfferenziazione, così come nel profano l'aumentata capacità delle tecnologie segna un ulteriore elemento di differenziazione del profano.
L'arte e l'interpretazione sociale sono connesse fin dalla loro apparizione, tutto questo diventa ancora più visibile con le grandi civiltà: ad un certo punto l'arte diventa una dimensione a sè stante, arriviamo fino a Kant che individua fondamentalmente tre sfere, quella della razionalità, quella etico-morale e quella estetica, tre blocchi che segnano tre modaità di rapporto dell'essere umano con il mondo che lo circonda. Tutto questo ha a che fare con modi attraverso il quela l'arte finisce per essere in qualche modo inglobata nei sistemi sociali, gerarchici e politici: c'è una famosa affermazione di Nietzsche, "In un epoca in cui vi è dominio di un dittatore ogni buon artista ha la mano protesa per farsi dare un giusto compenso", giusto compenso per fornire una rappresentazione del potere, una conoscenza finalizzata a riprodurre un certo assetto di potere: pensa a che funzione ha avuto l'arte nelle manifestazioni in cui era esplicitamente schierata durante i regimi totalitari delle società di massa (come l'arte socialista o fascista), ad un certo punto bisogna iniziare a considerare l'arte non come concetto ma come funzione estetica. Per fare un esempio: la costruzione di un quartiere come l'EUR è una questione urbanistica o è legata ad una precisa funzione estetica? Ad un'idea di come doveva essere articolato il territorio? Pensa anche ai grandi progetti di Albert Speer con Hitler, la Berlino impriale o a Norimberga, città esemplare. Tutto questo ha piegato la funzione estetica al potere, in un suo famoso scritto Trotsky considera gli artisti dei "compagni di strada" con cui costruire delle alleanze momentanee. L'arte ha avuto una relazione simbiotica con la crescita dei livelli organizzativi della società, fino ad arrivare ad una situazione nella quale la funzione estetica si è intrecciata in maniera potente con la stessa produzione del senso, con la stessa produzione culturale: arte e scienza si sono incredibilmente mescolate fra di loro. Da un certo punto dell'evoluzione sociale in poi, potremmo tranquillamente ricostruire organizzazioni sociali e politiche a partire dai principi artistici e dalle funzioni estetiche che li hanno caratterizzati. Con la modernità possiamo vedere come la stessa filosofia, con la rivoluzione estetica di Nietzsche: l'unica funzione funzione che permette una corretta comprensione del mondo non è la razionalità ma l'interpretazione, ma di tipo estetico, è il mondo estetico che permette una corretta comprensione dei fatti umani. Vorrei sottolineare che, in questo caso, estetico non significa necessariamente "bello", bisogna uscire da una concezione manichea dell'estetica, l'estetica ha a che fare con una circolarità più complessa della relazione che intercorre fra l'artista, l'opera ed il fruitore, che va al di là della semplice visualizzazione tecnica dell'opera. Tutta la filosofia post-strutturalista ha rimescolato tutto, il vero elemento di rottura fra la modernità e la post-modernità è proprio l'interruzione del processo di differenziazione: la post-modernità de-differenzia e questo meccanismo si vede proprio nell'elemento che non tiene più separate la cultura alta da quella popolare, questo strumento è proprio il mass-media.


P: Proprio parlando di mass media mi viene in mente proprio Marshall McLuhan, che disse la selebre frase "il medium è il messaggio". Questa frase io, personalmente, l'ho applicata nel campo della critica d'arte: La Gioconda è un capolavoro, ma anche un'opera come "La merda d'artista" di Piero Manzoni è anch'essa considerata "arte"... Cambia il metodo artistico ma il messaggio rimane, lei che ne pensa?

F. Orazi: McLuhan lo pensava sicuramente: il medium, per lui, non è solo il televisore o la radio, anche un bastone o una pistola è un medium, concepisce tutto questo con il meccanismo delle estensioni sensoriali. Marshall McLuhan non era un sociologo ma un letterato, la sua ricerca parte dal mondo pubblicitario: sul piano della fruizione dell'oggetto d'arte credo che l'analisi di McLuhan sia estremamente fruttuosa, sebbene poco citata in campo post-strutturalista. Nel momento in cui si dice che l'oggetto d'arte è, fondamentalmente una fonte libidinale, ossia attraverso il quale si sollecita il corpo del fruitore e si stimola il suo desiderio ecco che il concetto di McLuhan ossia l'esposizione in quanto tale al medium, mi sembra molto connesso al campo artistico. Pensa a quanto, oggi, la pubblicità sia incentrata su un approccio logo-libidinale, e non mi riferisco solo al fatto che la pubblicità ci bombarda di tette e culi, ma che, oggi, la funzione estetica nella valorizzazione dei beni è al centro del processo economico. Se un tempo la pubblicità tentava di tenere sotto controllo i bisogni oggi c'è stato uno spostamento dai bisogni ai desideri, il sistema pubblicitario è uno straordinario "organizzatore di mancanza", desiderare è una cosa che ci connota in maniera molto precisa rispetto agli altri esseri umani ed in una certa prospettiva Lacaniana, questo desiderio è connesso ad un discorso linguistico. Per tornare alla domanda iniziale, credo l'idea alla McLuhan sia molto più proficua in un'analisi estetica che in un'analisi della comunicazione.

P: Per concludere una domanda "moderna": negli ultimi dieci anni l'esplosione del fenomeno di internet e dei social network ha permesso a tutti di rimenere connessi, in che modo l'arte può relazionarsi a questi nuovi metodi di comunicazione? Mi vengono in mente siti come twitter, deviantart, flickr o tumblr e di come, mentre una volta c'era la tela ed il pennello, oggi un programma come photoshop possa essere considerato uno strumento d'arte. In che modo il social network può influire a livello artistico e comunicativo?

F. Orazi: Internet, e più in generale tutto ciò che è tecnologia digitale, ha la straordinaria capacità di "rimediare", il digitale integra le quattro forme di relazione dialogica umana: tutto questo ha enormi implicazioni in plotica, in scienza, nella didattica e quindi anche nell'arte. La dimensione virtuale e la rappresentazione in bit viene sfruttata per portare in rete il più classico dei giacimenti artistici che è il museo, la virtualizzazione dei musei è stata una delle prime operazioni che si è compiuta in ambito internet per portare l'opera d'arte tradizionali alla fruibilità generalizzata. Io ho un'idea, tutto ciò che è estetico e che quindi può essere arte ha a che fare con le relazioni che gli esseri umani intrattengono con vari prodotti o con determinate immagini, la rete è uno straordinario moltiplicatore straordinario di tutto ciò: un moltiplicatore a livello di fruibilità ma anche a livello di produzione. Il digitale ha potenzialità enormi, il problema però nasce nel momento in cui si passa dall'arte figurativa all'arte non figurativa, il quadro non è più una finestra sul mondo, ma c'è una decomposizione della forma mondo che l'artista cerca di ricomporre: più cresce la non figuratività dell'arte più cresce la necessità di astrazione interpretativa dell'arte... Stiamo decostruendo i tracciati narrativi dell'opera d'arte, o paradossalmente, decostruendo la semantica dell'opera ci stiamo spostando verso un'interpretazione iperastratta dell'opera stessa? Insomma, di fronte a due tubi messi in croce ho bisogno di andare a scovare ermeneuticamente cosa intendeva l'autore e da dove nasce l'autore stesso, c'è bisogno di una continuazione di rimandi per comprendere un'opera completamente scollegata dall'immeditezza del fruitore, io non capisco nulla dell'avanguardia e mi pongo sempre questo problema: devo studiare l'autore? O può valere qualsiasi cosa? Questo dà il via libera ad un trionfo narcisistico autoreferenziale, l'arte non deve essere solo figurativa, lo spostamento verso l'astrattismo è il tentativo di rappresentare l'inconscio e tutto questo ci porta ad un enorme paradosso interpretativo: l'analista va molto a tentativi, spesso l'inconscio non parla e ci sono resistenze poderose e poi, volendo utilizzare dal sano razionalismo, ci si pone una domanda legittima... Ma siamo sicuri che 'sto cazzo di inconscio esista? Andrei cauto nel dare questa centralità esplicativa all'inconscio, forse anche l'artista dovrebbe riflettere meglio su questa cosa, l'inconscio non è facilmente trasmissibile e tantomeno facilmente rappresentabile. Se gli analisti si sono posti queso problema sulla complessità dell'inconscio ecco allora che l'artista dovrebbe magari ... studiare un po' di più? Ahahahahahahah!

P: Ahahahahahah... beh, magari non sarebbe proprio una bruttissima idea!





Noi dello staff vi auguriamo un felice Natale e buone feste... Magari è la volta buona che riusciamo a prenderci qualche ferie anche noi! Chi può, magari, approfitti delle festività per farsi un bel giro fra musei e mostre!

                                                                                                    - P.

mercoledì 19 dicembre 2012

SettimArte: Jean Rollin - La Rosa di Ferro


E' il 1973. Jean Rollin, già affermato regista di film a metà tra l’horror vampiresco e l’erotico, decide di dare una svolta alla sua carriera. E’ arrivato il momento di realizzare il film “profondo” , come ogni cineasta che si rispetti. Con una mossa abile ma anche altamente rischiosa, decide di investire tutto quello che ha nel progetto che ha in mente, inizialmente concepito come un cortometraggio, nonostante il parere contrario degli addetti ai lavori, che lo vedono già come un disastro annunciato. Rollin, per coprirsi le spalle, accetterà quindi un incarico per il biennio successivo con la Impex, casa produttrice francese: il regista, in sostanza, sacrifica due anni di lavoro pur di realizzare quel film. Stiamo parlando de La rosa di ferro.

La rosa in questione appare nei primi fotogrammi: si tratta semplicemente di una rosa, realizzata in ferro.
Ma è tutto qui?

Basato su una trama ai limiti dell’ermetico, il film si può riassumere in due righe. Due ragazzi, incontratisi a un matrimonio, si danno un appuntamento per il weekend, durante il quale si perdono in un cimitero; sorpresi dalla notte, vagano tra le tombe, finchè la donna, apparentemente impazzita, compie un gesto folle.

La concezione da cortometraggio, effettivamente, c’è: il filmato sembra “spalmato” per circa 75 minuti, quando ne sarebbero bastati la metà per descrivere il tutto. Lunghe sequenze monotone la fanno da padrone e l’impressione generale, complice anche alcuni errori di continuità, ovvero laddove compaiono sequenze non opportunamente collegate a quelle adiacenti o dove il nesso non appare chiaro, è di non limpida chiarezza. Questo è evidente già nelle due sequenze iniziali: una ragazza (Françoise Pascal) , quella che scopriremo essere la protagonista, in riva al mare, e la stessa che amoreggia con un uomo sul predellino di un vagone, in una stazione. Sapremo poi che quest’ultima scena avviene, in linea temporale, dopo che i due si sono incontrati a una festa di nozze.
L’opera punta su due soli personaggi, interpretati dalla bella Pascal e Hughes Quester, attori poco conosciuti, ma che qui danno una prova discreta. La recitazione risente purtroppo degli errori suddetti, al punto che spesso cade nel monocorde, anche se questo non è da imputare agli attori. L’atmosfera di angoscia, di surreale a tratti, la sensazione di girare sempre in tondo è comunque, probabilmente, voluta.
Dopotutto i due, in piena notte, si perdono nel grande cimitero di Amiens, per cui gran parte del filmato mostra la coppia vagare tra segnacoli e mausolei, e l’impressione generale di inquietudine non fa che riverberarsi sullo spettatore.

Eppure, nonostante tutto, a fine visione, è forte l’idea che la protagonista sia, in realtà, la sola donna, di cui non viene rivelato il nome: in fin dei conti i due che vediamo sono persone come tante, due ragazzi che si attraggono, solamente che per amarsi scelgono un luogo insolito. La ragazza, che era sembrata inizialmente ingenua e leggermente svampita, una volta presa dalla paranoia sembra acquistare una ragione tutta sua: trovandosi davanti i resti mortali di alcuni bambini, sembra improvvisamente impazzire e adeguarsi al contempo al luogo in cui si trova. Laddove era sembrata spaventata e a disagio, ora si mostra quasi in uno stato di trance, mettendosi a danzare tra le tombe, con fare sognante, sotto lo sguardo stranito del suo accompagnatore.
Cos’ha fatto sì che cambiasse idea così in fretta?

Il dualismo è chiaro ed è uno dei più classici, ossia quello tra Amore e Morte, Eros e Thanathos. L’unica pecca che si può rimproverare a Rollin è di aver reso la cosa estremamente semplificata: i protagonisti infatti si ritrovano a consumare una serie di rapporti sessuali proprio in una tomba sotterranea, e la vicenda finisce con la morte dei due.

Eva prima Pandora, Jean Cousin.
Sono presenti una serie di rimandi fin troppo evidenti, dall’amore in senso carnale e come concepimento di una nuova Vita, alla visione di Morte come pace finale. In sostanza, i due concetti sono equiparabili, nella visione più classica del binomio d’origine psicanalitica. La Morte come distruzione, nell’opera, è visualizzata esclusivamente come dissolvimento delle vestigia terrene, una visione malinconica ma portatrice di valori più alti, più sublimi. La stessa fanciulla protagonista si diverte, come una novella Eva o una Medusa dell’iconografia classica, a baloccarsi con teschi e ossa. Sappiamo che la contemplazione della Morte non è, qui, muta ammirazione, ma risulta una tensione a rendersi alfiere della Tetra signora, vista come liberazione da tutte le sofferenze. Una visione tutta romantica, ma estremamente attuale. La donna è ritratta nell’atto di afferrare un teschio frantumato per metà e portarselo al viso, come una maschera, e difatti, come dicevamo, lei stessa diviene strumento e vittima della Morte. Imprigionato il suo amante nella tomba-alcova, la vedremo danzare tra i tumuli e le croci, in una sequenza di una bellezza e di una suggestione che ammutolisce. Bizzarro riflettere sul fatto che la sua figura silfidica sia l’unica presenza viva in quel posto, un parallelismo che riscontriamo nell’interessante fiaba Psiche di H.C. Andersen, in cui una lucertola si agita nel teschio del protagonista e l’autore nota come il dibattersi di quella creaturina sia l’unica cosa viva in quello che un tempo era stato un coacervo di pensieri, idee, sogni, passioni, e che ora ha trovato una pace silenziosa ed eterna.

Nascita di Venere, Alexandre Cabanel.
I Quattrocenti Colpi, Francois Truffaut
Le due sequenze parallele della giovane protagonista nuda in riva al mare potrebbero simboleggiare, come accadeva già ne I quattrocento colpi, di François Truffaut, una nascita/ritorno al grembo materno, per cui ricordiamo la somiglianza fonetica in lingua francese mere: madre/mer: mare, senza contare l’emblematica nascita di Venere dalla schiuma marina. Il paesaggio marino all’alba, la nudità della fanciulla, la croce piantata nella sabbia: il tutto è dipinto con una nitidezza al contempo forte dei contrasti e delicata nei colori attutiti, in una scena dal forte impatto visivo e metaforico.
La rosa di ferro ricorre qui, ma sapremo che è un ornamento funebre che la ragazza ha sottratto a una tomba, una chiave che fa da filo conduttore al viaggio in cui il regista ci guida.

La rosa come simbolo di passione, di vita, ma anche di precarietà e perfino di segretezza (notare l’espressione latina sub rosa, in segreto, che ricorderemo ne Il codice Da Vinci) , costruita in ferro: è un antitesi forte, il simbolo di un fiore così delicato da durare un giorno solo, ma che può in questo modo durare per sempre.

Uroborus
E’ la summa delle pulsioni, quella sessuale e quella distruttiva, le due forze essenziali che portano avanti l’esistenza, in quanto entrambe sono latrici di vita. Laddove però Amore, visto come pulsione tendenzialmente positiva, crea confusione, intrecci, errori, Morte, antiteticamente negativo, è la tradizionale “livella” che porta al primitivo ordine, alla pace a cui abbiamo già accennato. Anche nella serie Sandman, di Neil Gaiman (già citato in altri articoli su questo blog) , uno dei personaggi, Death, personificazione appunto della Morte, si stupisce di come tutti abbiano paura di lei - quando in realtà molti neanche si accorgono di essere trapassati nel momento cruciale - in quanto il suo intervento non è niente di strano, al contrario, è quanto più di naturale ci sia. E’ un’ovvietà dire che la Morte genera Vita e viceversa, ed è una visione ancestrale che viene simboleggiata dall’Uroborus, simbolo dell’eterno ritorno, delle forze opposte che non fanno che rincorrersi, come appunto nel serpente che si morde la coda.

Il cimitero, per l’appunto, visto generalmente come un luogo triste, pieno di tristezza e disperazione, è, in una visione parallela, una sorta di locus amoenus, contraltare del giardino delle delizie e sua immagine speculare, dove in realtà non si trova altro che eterea serenità, al massimo una sorta di venata malinconia. Quello di Amiens, set principale del film, è popolato di bizzarre creature, e non sembrano vedersi normali visitatori: una strana vecchina che funge da custode, un misterioso uomo incappucciato, addirittura un clown, fanno la loro comparsa, come macchiette su un palcoscenico, e soprattutto come se la loro presenza fosse assolutamente naturale. Sembrano far tutti parte di un rito collettivo e senza fine, un’umana rappresentazione, come se quel luogo fosse fuori dal tempo e dallo spazio, esattamente come lo è il palcoscenico e per esteso il set cinematografico.
Le strane comparse, come anche i due protagonisti, sono ritratti con un contrasto cromatico estremamente riuscito: sembra un caso, ma non lo è, che l’uomo sia vestito di rosso e la ragazza di giallo, spiccando in modo netto nelle scene notturne, ma anche in quelle diurne, laddove il cimitero presenta un ovvio monocromatismo. La nebbia, poi, non fa che evidenziare il contrasto, coadiuvato anche da inquadrature spesso in controluce o comunque molto scure e ombrose.
La mancanza di una colonna sonora è, come altre scelte, un espediente che al contempo può stancare lo spettatore meno temprato, ma risulta affascinante a quelli più navigati. Il suono del silenzio in un cimitero è una scelta estremamente realistica, suggestiva e anche coraggiosa, e sottolinea così scene cruciali, regalando un tocco di giusta sacralità.

Il film si apre e si chiude con un tocco deciso e delicato, come può esserlo il suono di un vecchio chiavistello. Le parole della giovane donna che suggellano l’opera sono ermetiche e raggelanti come poche “Siete tutti morti. Noi viviamo” . Parole che sottolineano la sua estrema decisione di non voler appartenere più ai vivi, come a dire che per scegliere una vita nuova e vera basta solo volerlo.

Si tratta di un film controverso, che non ha goduto di giusta fama per motivi anche condivisibili, ma certamente molto più profondo del resto delle opere di Jean Rollin che invece risultano a tutt’oggi ancora famose, nonostante siano di spessore indubbiamente minore rispetto a quello in esame. Probabilmente avrebbe potuto essere maggiormente apprezzato se il regista avesse approfondito i contenuti, che spesso risultano solo accennati, magari sperando in una resa più ermetica e simbolista, che non è stata, purtroppo, completamente recepita.

-R. 

venerdì 14 dicembre 2012

Friday boulevard: the best of the week


Anche questa settimana si sta concludendo e come ogni venerdì vi presentiamo una summa degli eventi più rilevanti in campo artistico.

Risale a martedì 11 l’intervento di Guido Talarico che ha parlato allo spazio Cerere durante l’incontro con il candidato alla presidenza della regione Lazio, Nicola Zingaretti.
L’ editore d’Inside Art ha dichiarato che cultura ed arte in questo momento di crisi stanno subendo un duro colpo e a risentirne ancora di più sono i giovani artisti emergenti: non riscontrano difficoltà solo nella pubblicizzazione delle opere, ma addirittura nell’acquisto dei materiali e nella realizzazione delle stesse. 
Sullo stesso piano di trovano gallerie e musei che, sempre più al verde, si vedono negate interessanti possibilità di mostre ed esposizioni.

Nel campo della critica artistica, informo i lettori sulla conclusione del Trentesimo Premio Salimbeni 2012. La cerimonia di premiazione avverrà sabato 15 dicembre alle ore 17 presso la Sala degli Stemmi del Municipio di San Severino Marche. A vincere l’edizione 2012, dedicata alla memoria del professor Luigi Daina (personalità di spicco all’interno della Fondazione Salimbeni e curatore della mostra sul pittore marchigiano Fortunato Duranti nel 1984), è stata Victoria Avery con il volume “Vulcan’s Forge in Venus’ City. The Story of Bronze in Venice 1350-1650”, edito dalla Oxford University Press (New York, 2011).
Per quanto riguarda mostre e congressi cito il convegno che si terrà a Siena presso il Palazzo del Governo (Piazza Duomo) nella giornata di oggi, venerdì 14 dicembre e domani, sabato 15 dicembre 2012. Il tema trattato sarà “Patrimonio mondiale e sviluppo sostenibile nelle Terre di Siena: la gestione UNESCO in tempo di crisi”. L’incontro metterà a confronto tecnici e politici in materia di valorizzazione e conservazione dei Siti Unesco in Italia e in Toscana. Assolutamente da non perdere!                       
                                                                                                                                             -F.                                                                                                                    



mercoledì 12 dicembre 2012

"Amore e Psiche": reportage di un week-end a Milano

Dicembre è arrivato e si è portato dietro un freddo siberiano e pioggia mista a neve, cosa che più antipatica non si può. Oltre a questi due dettagli poco trascurabili c'è una terza caratteristica che mi fa amare molto poco la prima parte del mese: sebbene sia da sciocchi credere alle superstizioni o alla sfortuna è tradizione ormai consolidata, almeno per il sottoscritto, che il ponte dell'Immacolata sia sempre indimenticabile. Indimenticabile in senso negativo purtroppo, ogni anno succedeva qualcosa di diverso che mi ha fatto odiare questa ricorrenza, visto e considerato il mirabolante inizio di settimana giovedì pomeriggio decido di mettere in atto una delle mie alzate di ingegno: visto che non si può scappare dal 8 Dicembre, magari cambiando posto le cose sarebbero potute andare meglio! La prospettiva di prendere “due piccioni con una fava” mi stuzzicava e così decido di allontanarmi dalla mia terra natale per il week-end e, al tempo stesso, di andare a trovare la mia migliore amica che ormai si è stabilita a Milano e che, fra mille impegni, non ero mai riuscito a vedere dalla fine delle vacanze estive. Così, con l'improvvisazione del “last minute” che mi contraddistingue da sempre, faccio i biglietti, raccatto le valige e vado diretto verso Milano! Superato il primo spaesamento di un povero provinciale catapultato nella metropoli del nord, noto subito con una certa gioia che il week-end si sarebbe prospettato molto interessante! La fortuna mi ha dato una migliore amica che, oltre ad essere estremamente paziente sa come prendermi per farmi stare allegro: così, poiché la cucina non è proprio il suo forte (ndr: scusa Vala), ha deciso di portarmi per musei piuttosto che prendermi per la gola! Proprio in questo periodo a Milano, presso la Sala Alessi di Palazzo Marino sono esposte gratuitamente al pubblico la scultura “Amore e Psiche stanti” di Antonio Canova e la tela “Psyché et l’Amour” di François Gérard, sarebbe stata una follia perdersi un'occasione così ghiotta!


La cosa che mi ha colpito, appena arrivati, è stata la fila: aldilà delle lamentele in pieno stile vecchietto alle poste, mi ha colpito positivamente come la gente si stia interessando di nuovo alla cultura nonostante le statistiche dicano invece l'opposto! Una volta entrati mi ha affascinato subito l'ambiente, la sala del palazzo era stata trasformata in un bosco arcadico, per ospitare le due magnifiche opere. Il tema di Amore e Psiche, narrato per la prima volta da Apuleio nelle sue “Metamorfosi” è una delle storie più affascinanti della mitologia classica, l'amore impossibile fra Eros, figlio di Venere, e la bellissima mortale Psiche che attira, con la sua straordinaria bellezza, le ire della dea. Venere ordina al figlio di far innamorare Psiche del più brutto mortale, ma sarà proprio il dio ad invaghirsi della bellissima fanciulla, con cui inizierà una relazione che ha come clausola l'impossibilità per lei di vedere il volto del suo amante. Psiche trasgredisce a questo divieto facendo scappare Amore e dovrà superare delle prove per ricongiungersi con l'amato, alla fine berrà l'Ambrosia divenendo ella stessa una dea e, dall'unione con Amore, nascerà Voluptas, il piacere.
Vedere dal vivo un'opera come la scultura di Canova o la tela di Gèrard è una grandissima emozione, non solo per chi può essere un appassionato di arte ma per chiunque: in quella sala si sentiva la magia e la fascinazione di due capolavori, una sensazione che una foto non riuscirà mai a trasmettere. “Come si guarda un quadro? Lo si guarda a lungo” dice Philippe Daverio, ed effettivamente questa mostra me ne ha dato la prova: sono i piccoli dettagli che fanno il capolavoro. Lo sguardo di Psiche che sente l'abbraccio di Amore, senza riuscire a vederlo, e il suo gesto quasi istintivo di coprirsi e di portarsi le mani al cuore sono raccolti in una compostezza e in un equilibrio di squisita eleganza e raffinatezza, ma ciò che veramente colpisce è il dettaglio della farfalla (infatti in greco Psiche, ψυχή, significa sia farfalla che anima) che si libra sopra i due amanti e i fiori in basso, fiori di fragola appena sbocciati: Gérard sceglie di non rappresentare il frutto ma il suo fiore proprio perché nella sua tela ha rappresentato lo sbocciare dell'amore fra il dio e la giovane donna.


La scultura di Canova, invece, mi ha lasciato letteralmente a bocca aperta, una vera e propria sindrome di Stendhal: il gesto delicato ed aggraziato di Psiche che consegna una farfalla ad Amore, il gesto più alto e più puro, consegnare la propria anima alla persona che si ama, un'anima fragile (come una farfalla) che l'altra persona accoglie fra le sue mani con estrema attenzione. Canova sceglie di non rappresentare Amore con i classici attributi con cui, invece, lo aveva rappresentato Gérard, ma rende i due personaggi due adolescenti, una scelta che rende quest'opera ancora più toccante, aldilà delle tanti speculazioni sulla presunta “freddezza” del neoclassicismo.
Un vero e proprio amore adolescenziale, con tutti i suoi sogni, la sua purezza e le sue difficoltà, ed è stupefacente come Canova sia riuscito a mettere in scultura un simile sentimento, puro come il marmo bianco con cui è realizzata l'opera e delicato come il panneggio di Psiche, esempio della sublime maestria tecnica di Canova, che riesce a dare al marmo l'impressione di un velo leggero.
Non voglio concentrarmi sul fare una critica delle opere o una recensione della mostra, ma piuttosto su come due opere d'arte, viste dal vivo, siano capaci di trasmettere emozioni infinite a chi osserva: per me che ero partito con mille pensieri su un giorno che reputavo portatore di sventure è stato quasi un processo di catarsi, un momento di pulizia da ogni sensazione negativa che albergava nel mio animo... Dubito si possa chiedere qualcosa di più all'arte.


Sin da piccolo ho sempre pensato che i veri capolavori (cinema, musica, pittura o letteratura) non fossero solo delle fantastiche applicazioni di tecnica o semplici manifestazioni di buon gusto, ma fossero anche capaci di smuovere le corde più profonde dell'animo umano e di andare a purificarlo da tutte quelle pulsioni negative ed inquinanti proposte giornalmente dalla vita, un processo che assomiglia alla scoperta della luna nella novella di Pirandello “Ciaula scopre la luna”.
Sorprendentemente, una volta uscito, mi sono sentito strano, più leggero e libero da tutti quei pesi che mi avevano assillato durante le settimane passate: certo, magari questo dipende da Valeria e dal buon Luca, che si sono impegnati a fondo per far sì che il sottoscritto si divertisse nelle lande meneghine (e a cui mando un saluto e dedico questo intervento di oggi), ma credo che offenderei Canova e Gérard se non li ringraziassi per avermi regalato emozioni così forti in un lasso di tempo così breve.

                                                                                                                    - P.




lunedì 10 dicembre 2012

Italian Journey in Possagno’s collection of plasters casts


In questi giorni di freddo glaciale e di otium mi è capitato di vedere la nuova pubblicità di Intimissimi.
Essendo distratta, la prima cosa che mi ha colpito è stata la melodia di sottofondo (Magical time of the year,David Tobin, nda) ma appena ho alzato lo sguardo verso lo schermo sono stata rapita dall’inconfondibile location, la gipsoteca di Canova a Possagno.
30 secondi di classe, eleganza e perfezione: senza dubbio la nuova modella Tanya Mityushina ha la sua parte, ma nessuno può equiparare le figure femminili dello scultore.
Proprio da questo originale accostamento è nata la mia riflessione, che ora mi ritrovo qui a condividere con voi followers.
Quanti di voi sostengono e apprezzano i nuovi canoni di bellezza? Quanti invece ricordano con piacere le forme e le curve delle antiche matronae?
Tanya Mityushina
Senza dubbio strutturare l’articolo sul concetto di bellezza mi è impossibile, poiché implicherebbe entrare nell'animo di ognuno e attingere sensazioni e idee per poi costruire un ipotetico ideale di bello (con rimandi a Raffaello e alla sua "certa Iddea"),di conseguenza preferisco soffermarmi sulle differenze tra le due immagini.
Ricordando la Laura petrarchesca, Tanya è la classica bellezza femminile, capello biondo, occhio azzurro, corpo tonico, forme al posto giusto che il pubblico maschile ha decisamente apprezzato, come dai commenti sul sito di Intimissimi. La modella si muove sinuosamente tra i gessi, sfiora le pareti e mostra il suo bel corpo lanciando un’occhiata complice (?) alla compagna Naiade sullo sfondo. La ciliegina sulla torta è la lingerie: pizzo e rasi disegnano le belle ed eleganti linee che da sempre caratterizzano lo stile ricercato della maison.
Le immagini sullo sfondo appaiono sfuocate, anche se un occhio attento può cogliere la “ nobile semplicità e la tranquilla grandezza” propria del Neoclassicismo canoviano.
Naiade con la pelle di leone
La stessa ninfa Naiade già citata in precedenza  è sdraiata su un triclinium ricoperto da una pelle di leone, simbolo di forza, audacia, vittoria. La mano appoggiata sulla guancia, lo sguardo provocatorio, la posa altezzosa, le gambe accavallate fanno della ninfa un soggetto molto sensuale, che non prova vergogna a mostrarsi nuda allo spettatore. Le sue forme si articolano su linee sinuose e curve, in prossimità dei suoi generosi fianchi il profilo si ripiega un po’.
Ogni singola parte del suo corpo risponde ai canoni della perfezione classica e regala all'osservatore attimi di pura bellezza. Per quanto mi riguarda sostengo pienamente questa seconda immagine. La donna così proposta si presenta sicura e padrona del suo corpo. L’uomo è attratto dalle sue curve, anela ad un contatto fisico, immagina di possederla. Non a caso tutti i grandi eroi della mitologia classica si innamorano delle ninfe e questo accade anche nella tradizione letteraria più vicina ai giorni nostri. Si prenda un D’Annunzio: nel Piacere egli presenta così Elena Muti: “Nell'atto un po' faticoso, per i movimenti de' muscoli e per l'ondeggiar delle ombre pareva sorridere da tutte le giunture, da tutte le pieghe, da tutti i cavi, soffuso d’un pallor ambra che richiamava al pensiero la Danae del Correggio. Ed ella aveva appunto le estremità un po' correggesche, le mani e i piedi piccoli e pieghevoli, quasi direi arborei come nelle statue di Dafne in sul principio primissimo della metamorfosi favoleggiata.”
Italian Journey backstage
Elena è il simbolo della passione, ma soprattutto della bellezza fisica, così come lo sono le donne di Canova. Non troviamo spigoli, non troviamo disarmonie. Lo sguardo è accompagnato dalla dolcezza e dalla purezza della forma, scivolando tra le morbide pieghe dei panneggi e degli abiti.
Oggi Tanya ci regala 30 secondi di bellezza, di eleganza, di armonia. Ma l’occhio si sofferma e analizza il pizzo del reggicalze o la brillantezza del raso: il suo corpo è funzionale al prodotto pubblicizzato e prima delle riprese è preparato (o modificato) da un adeguato staff di truccatori. Com'è Tanya, o meglio, la donna contemporanea al naturale? Saprà essere sensuale anche senza maquillage? La sua bellezza sarà riflesso di un’accurata toletta o di un insieme di gesti e di sguardi?
Lascio a voi la risposta, ma come scrive il mio esteta preferito “ci sono certi sguardi di donna che l’uomo amante non iscambierebbe con l’intero possesso del corpo di lei”.
                                                                                                                         -Federica.
La sensualità di Naiade

mercoledì 5 dicembre 2012

Intervista: quattro chiacchiere con Michele Laurenzana

Michele Laurenzana è nato a Modena nel 1983, geometra e laureando dell'Università Politecnica delle Marche al corso di laurea specialistica in Ingegneria Edile-Architettura.
Ha partecipato a vari concorsi in ambito architettonico ed urbanistico e nel 2008 ha seguito la promozione di un gruppo (i Milagro) per San Remo Giovani. “La Segreta Verità” è il suo primo romanzo.
Mi sono trovato a conoscere Michele in un'occasione un po' particolare all'università e, affascinato dalla sua esperienza per certi versi simile alla mia, ho deciso di chiedergli un'intervista per il nostro blog che voglio condividere con i lettori.


P: Allora, sarà un po' banale come inizio, ma la prima domanda che voglio farti è come hai coltivato nel tempo il rapporto con la scrittura, partendo sin dall'adolescenza.
M: È una cosa nata dai tempi delle superiori, perché la professoressa di italiano delle superiori ci dava delle tracce tematiche e noi dovevamo costruirci un racconto sopra. Durante l'infanzia non è che abbia letto moltissimo, leggevo giusto i libri più banali e più stupidi che ti davano da leggere, però da questo input di inventare storie è partito tutto tant'è che nei temi avevo voti molto bassi, mentre quando invece bisognava inventarsi dei racconti prendevo anche voti molto alti che la professoressa non dava mai. Da lì è nata la passione del leggere e dell'approfondire, invece “La segreta verità” è nato quasi come uno sfogo iniziale, un diario di viaggio di un periodo della mia vita un po' particolare, poi adattato in un racconto lungo.

P: Il luogo comune vuole l'ingegnere come una persona molto schematica, anche se in realtà questo tuo aspetto mi ricorda molto Carlo Emilio Gadda, autore del libro “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana”, anch'egli ingegnere. Mi interesserebbe sapere come lo studiare in una facoltà come Ingegneria Edile-Architettura abbia contaminato il tuo rapporto con lo scrivere, visto che mi ritrovo io stesso in una situazione analoga alla tua: personalmente ho visto come questa facoltà mi abbia dato lo stimolo ad essere più ordinato nel pensare. Vorrei sapere se anche tu hai avuto provato qualcosa di analogo o se tieni separati i due ambiti, lo studio e la passione letteraria.
M: Come te frequento un corso che è sì di Ingegneria, ma è appunto Ingegneria Edile-Architettura, che rappresenta un po' questo dualismo che ho sempre avuto dentro: apparire una persona seria ma tenere dentro una vena artistica ed estroversa, ho fatto teatro per due anni.
Proprio l'aspetto architettonico è importante: con un edificio, aldilà della funzionalità, devi cercare di trasmettere emozioni, paradossalmente nel raccontare una storia, seppure le modalità siano diverse, lo scopo è lo stesso. Il fatto di avere una storia da raccontare rappresenta forse l'ambito più architettonico, ma l'aspetto ingegneristico, confermando quello che dicevi tu, mi ha aiutato a mettere dei paletti e a raggiungere l'obiettivo in maniera più concreta.

P: Volendo fare un paragone, ho sempre pensato che costruire una storia sia un po' come costruire un edificio...
M: Quando si progetta, si è abituati a farsi uno schema: si punta l'obiettivo finale e si vedono quali strade portano a questo obiettivo, inserendo così i vari tasselli che ti portano a realizzare una costruzione. Ho applicato gli stessi principi nello scrivere il libro: avevo un obiettivo finale (che mi ero scritto) ed ho cercato delle caratteristiche che permettessero alla storia di “stare in piedi” (ndr: altro paragone ingegneristico!). Ho applicato dei metodi “scientifici” su qualcosa che di scientifico aveva ben poco, la storia in sé per sé l'ho realizzata in circa un mese, poi ho solo rielaborato quanto ideato all'inizio.

P: Parlando proprio del romanzo... Quali sono state le tue influenze? Mi riferisco sia alle esperienze biografiche che, come sappiamo, formano una persona e sono spesso fonte di ispirazione, sia a livello artistico quei personaggi che per te hanno avuto un peso rilevante nel formare il tuo stile.
M: Quando ho iniziato a scrivere il mio romanzo non stavo vivendo un periodo particolarmente bello della mia vita. La notte del concepimento della storia risale ad una sera, durante la quale sono andato con alcuni amici al cinema a vedere “Shutter Island”: mi ha affascinato come, nel finale, dopo quasi tre ore di film lo spettatore si rendesse conto di non aver capito nulla della trama del film. Da questa fascinazione per un regista o uno sceneggiatore capace di ideare una storia così articolata, ho avuto la voglia di mettermi in gioco e sfidare me stesso per vedere se ero capace di realizzare una storia, anche se sapevo di non avere nessuna base letteraria solida. Ammiro molto Baricco, soprattutto per il suo particolare uso della punteggiatura che sembra dare più valore alla parola, ma anche Stefano Benni, per il modo di dare un risvolto apparente ed illusorio alla storia.
A livello personale, è stata la vita stessa a dare corpo al nucleo de “La segreta verità” che ho cercato di adattare ad una storia quasi cinematografica: proprio questo è quello che la gente sembra apprezzare di più del mio romanzo. Probabilmente più che farmi influenzare da scrittori ho preferito seguire più un filone cinematografico.

P: È molto interessante questo dualismo con il cinema: personalmente anche io guardo molto al rapporto fra l'arte ed il cinema, credo sia limitante vedere le varie arti come compartimenti stagni separati fra loro... Mi ha molto colpito questo tuo essere “regista” del tuo romanzo.
M: L'arte non può essere univoca, quando scrivi una storia giochi a fare Dio: mentre negli altri campi sei spesso manovrato da altre persone quando inventi un racconto sei tu che scegli i personaggi, dai loro un nome, un volto e delle caratteristiche... Diventi effettivamente il regista della tua storia. Piuttosto che applicare un modo di fare “scientifico”su come scrivere una storia, però concepire una storia con gli occhi di un regista aiuta tantissimo: ok lasciare libera la fantasia del lettore ma devi dargli tutto, ad esempio io ho inserito molte canzoni nel romanzo, che è una tattica cinematografica.

P: “La segreta verità” è figlia dell'esperienza che hai vissuto... Quale è stato l'iter di formazione del romanzo? Trovo molto bella questa ambivalenza fra l'ispirazione che hai avuto dal film “Shutter Island” e il periodo non bellissimo che stavi vivendo.
M: Se volessi dirtelo a livello schematico sarebbe: periodo particolare, quindi magari avere una persona o un modo con cui sfogarmi... Quindi questa storia che già esisteva, attendeva solo di essere liberata. Un periodo piuttosto lungo di incubazione, quindi: casualmente ho visto quel film e da lì ho avuto la folgorazione per sviluppare la storia. C'era un sostrato che era come una pentola a pressione ed il film è stato il tappo!
Avevo l'inizio e la fine, ma per arrivare alla fine dovevo scrivere cosa accadeva nella parte centrale, altrimenti avrei avuto un'opera incompiuta, ho scritto tutta la storia lavorando notte e giorno in circa un mese. L'incontro casuale con la mia professoressa delle superiori mi ha dato lo stimolo in più per riadattare questo diario in una storia vera e propria.

P: Del film “Shutter Island” ti ha affascinato che ci sia una storia con un finale “a sorpresa” e questa cosa l'hai riscontrata anche nelle opere di Benni. Visto che dici tu stesso che “La segreta verità” è frutto dell'esperienza personale secondo te può essere che, effettivamente, la vita dia dei messaggi o dei segnali che noi fraintendiamo o capiamo solo alla fine?
M: A livello personale questo di sicuro: molti di noi vivono dei percorsi a cui non riusciamo a comprendere ma prima o poi arriverà il momento in cui tutto sarà rivelato, sono frasi dette mille volte ed ognuno le avrà già sentite dagli amici. Nella storia non potevo rendere questo aspetto troppo biografico per motivi personali, per cui sebbene molti personaggi del libro esistano veramente sono stati romanzati, ho cercato di mettere determinate caratteristiche all'interno della storia che potessero un po' avvicinarsi a tante persone... anche perché poi, chi valuta il valore di un racconto è il lettore. Il bello del raccontare una storia ed arrivare alla fine, credendo di aver capito una cosa, e poi, proprio nelle ultime righe, capisci che tutto si rivoluziona, credo rappresenti un po' la vita in generale: uno crede sempre di aver capito tutto ma poi si rende conto di non aver capito proprio nulla... conosci una persona ma non la conoscerai mai fino in fondo. In maniera estremizzata posso dire che la storia dei personaggi, sebbene unica, è un po' la storia di tutti noi.

P: Hai parlato di cinema e del rapporto che ha la tua scrittura con il mondo del cinema, mi hai detto di aver studiato per diversi anni teatro... In che modo il teatro ha contaminato il tuo stile narrativo?
M: Principalmente per i dialoghi: a volte leggo dei libri con dei dialoghi molto banali, sono un aspetto sottovalutato in quanto aiutano il lettore ad immaginarsi ancora meglio la scena. Ho cercato di non metterne troppi, ma nei dialoghi ho applicato quanto ho imparato a teatro... Quando scrivevo scrivevo con la musica, mi immaginavo che se una scena dovesse essere trasposta al cinema avrebbe dovuto avere quella musica, per trasmettere meglio determinate emozioni. C'è una scena in particolare, verso la fine del libro, che paradossalmente, mentre la scrivevo, avevo proprio la sensazione di vuoto allo stomaco perché sentivo di viverla davvero tanto!

P: Direi che è il caso di avviarsi verso la conclusione, ma prima avrei qualche altra domanda... Sei molto giovane, così come me, e vorrei sapere come vivi questo essere uno scrittore, giovane ed universitario.
M: È una cosa un po' particolare, perché o ti ritrovi a fare interviste (ndr: come in questo caso!), ricevi proposte da parte di alcuni blog, altre volte dei giornali mi chiedono di scrivere determinati articoli... Sembra quasi che mi venga chiesto un senso di responsabilità, come se il mantra fosse “tu hai scritto quindi puoi fare qualcosa in più per raccontare qualcosa”. Il più delle volte rinuncio a questi impegni così grossi, perché è un senso di responsabilità troppo grande, perché la gente si ritrova non più a giudicare un'opera ma il tuo modo di pensare o di esprimerti su alcuni argomenti di attualità. Non credevo che una cosa del genere potesse appartenermi, ricevo degli inviti che non mi aspettavo... Mi sono ritrovato ad avere l'interesse da chi fa parte del mondo del cinema, come Paolo Genovese, che mi ha contattato su facebook, altri personaggi del mondo dello spettacolo che hanno letto il romanzo sono stati Mandelli e Cevoli.  

P: Sono incuriosito da quest'ultimo aspetto: proprio da facebook, mi dicevi, è partito questo tam tam del romanzo, un aspetto della vita moderna è proprio l'essere tutti connessi fra noi grazie a questa rete virtuale... Aldilà dei vari aspetti sociologi, sui quali è meglio non approfondire se vogliamo tornare entrambi a casa presto, quanto il tuo romanzo è figlio della modernità ed in particolare dei social network?
M: Tanto... Nella trama c'è un forte legame con il mondo della tecnologia: i social network entrano prepotentemente nel mondo della storia, si parla di facebook o di twitter come di modi per creare legami, per approfondirli, per spezzarli o per carpire informazioni... e questo comunque fa parte del nostro mondo. Dall'altro lato i social network sono stati il modo in cui ho pubblicizzato il romanzo: ho aperto sia la pagina facebook che la pagina twitter. su facebook ci sono i tuoi amici che ti danno una mano ma fino ad un certo punto, l'aiuto più grande l'ho avuto più dagli sconosciuti (perlopiù celebrità del mondo dello spettacolo) su twitter che erano realmente interessati a quento stavo producendo... La vera promozione l'ho avuta da twitter e non da facebook.

P: Prima di chiudere... progetti in cantiere, non a livello edilizio ma letterario, ci sono? Oppure “La segreta verità” rimarrà un'esperienza isolata?
M: No, isolata no di sicuro. Attualmente ho degli impegni che sono quelli della laurea e sono concentrato su quelli, una volta terminato questo percorso tornerò a scrivere perché è una cosa che mi piace, probabilmente mi dedicherò a degli spazi blog. Cercherò di portare avanti sia la professione dell'edilizia sia la passione della scrittura.

P: Grazie per il tempo che mi hai concesso, facciamo un saluto a tutti i lettori del blog!
M: Grazie a te! Saluto tutti i lettori del blog The Philosopher's Cave!


Per chi volesse approfondire la conoscenza del libro di Michele Laurenzana, lascio il link al sito ufficiale ed invito chiunque a prendersi una copia di questo romanzo! www.lasegretaverita.tk


                                                                                                              - P.

lunedì 3 dicembre 2012

Encomio funebre in memoria del maestro Osvaldo Paniccia

Venerdì pomeriggio, ero in macchina e stavo tornando a casa quando mi arriva una telefonata da un mio amico:

“Oh, ma hai saputo chi è morto?”
“Oddio... che è successo?!”
“È morto Osvaldo Paniccia!!”

Scettico più che mai, appena tornato a casa apro facebook e mi ritrovo la home piena di foto di questo manifesto funebre.


Dunque era tutto vero, il “monarca assoluto della pittura” ci aveva lasciato. Certo, i più sarcastici diranno che la voce del maestro nella storica intervista con Diprè non lasciava ben sperare, ridotta più ad un sussurro biascicato ed incomprensibile che ad un emissione vocale. Si è pensato fosse un fake, del resto già altre volte era trapelata la falsa notizia della scomparsa del pittore, ma stavolta, purtroppo, era tutto vero: il maestro “capace di uno specchio segreto” (parole di Diprè queste) ci aveva abbandonato.
Così, ho deciso di dedicare questo primo articolo di Dicembre alla memoria di un uomo che si è trasformato, suo malgrado, in un tormentone della rete e che ha conquistato tutto il pubblico del web.
Era ancora il 2010, quando un mio amico all'università mi parlò della sua ultima scoperta dal mondo del trash: il canale video del Prof. Avv. Dott. Andrea Diprè (di cui abbiamo già abbondantemente parlato in questo articolo, e sul quale, onestamente, meno si dice e meglio è) e la sua scuderia di artisti, tutti un po' sopra le righe, ognuno a modo loro. Fra di loro, sicuramente, quello più meritevole di attenzione era proprio il maestro di Terracina, Osvaldo Paniccia che ben presto, poco tempo dopo la segnalazione del mio compagno di corso, si sarebbe trasformato in uno dei tanti “meme” che popolano il web. Del resto, fra i tanti “personaggi” che Diprè ci ha proposto, Osvaldo Paniccia è di sicuro quello più rappresentativo: con le sue espressioni che sembrano perennemente angosciate, la sua voce rotta dall'affanno e le sue brutte pitture questo bizzarro personaggio era riuscito ad ottenere il tanto agognato “quarto d'ora di celebrità” di Andy Wahrol.

Uno degli sguardi più famosi della storia dell'arte...
Alla sua morte, vedere come tutto il web abbia dato l'estremo saluto all'artista (sebbene sempre un po' sopra le righe) mi ha fatto molto riflettere su questa vicenda che sembra uscita direttamente da una novella di Pirandello: una vita vissuta ai margini della società inseguendo un sogno, quello del mondo dell'arte, e vedere arrivare la fama alla fine della propria vita anche se in maniera molto diversa da come, probabilmente, egli si sarebbe aspettato, ritrovandosi ad essere, seppure in una maniera un po' inusuale, uno degli artisti italiani più famosi degli ultimi anni, tanto che Marco Giusti, su Dagospia, ha implorato Massimiliano Gioni di ospitare alla Biennale di Venezia la ormai celeberrima “Natura Morta Con Gamberi”.
A nome di tutto il blog voglio ricordare il maestro con una breve galleria dei suoi quadri, non certo capolavori, ma semplici testimonianze di una persona ai margini che ha sempre, pazientemente atteso un'occasione di ribalta, tanto che la notizia della sua morte è trapelata dal tam tam virale dei social network, coinvolgendo migliaia di utenti.




Sono sicuro che il maestro si sia spento serenamente, avendo ormai raggiunto la fama di “pittore”, e sebbene non possa sperare di essere ricordato come un novello Matisse, credo sarà felice di sapere che molti ragazzi, quando si parla di pittura, conoscano più lui che altri nomi ben più importanti! Del resto, non posso nascondere che aldilà delle risa e di tutto quello che si può dire sul pittore di Terracina, ho sempre nutrito una sincera ammirazione per le sue parole più famose:

“L'arte è una cosa seria, non si può prendere sotto gamba.”

Si potrebbe dire molto sul “talento” di Osvaldo, si potrebbe dire ancora di più sulla capacità critica di quel volpone di Diprè (ma non lo faremo), ma non si può dire nulla su una manifestazione così devota verso una passione.
Concludo con uno dei tanti commenti che sono comparsi su facebook “Ciao Osvaldo, ora insegna agli angeli a dipingere gamberi!”, e una volta tanto non posso trovarmi più d'accordo di così!

                                                                                                                              - P.




POSTILLA: stando a quanto detto su artribune.com, sembrerebbe che la famosa “Natura Morta con Gamberi” costasse 95.000 € quando il maestro era ancora in vita (ovviamente il prezzo era stato stimato dall'inarrivabile Diprè), ora che Osvaldo è scomparso mi pare logico dedurre che il prezzo della tela abbia subito un vertiginoso aumento... Plauso quindi a quanti siano stati talmente furbi da accaparrarsi un pezzo prima del triste evento!