E' il 1973. Jean Rollin, già affermato regista di film a
metà tra l’horror vampiresco e l’erotico, decide di dare una svolta alla sua
carriera. E’ arrivato il momento di realizzare il film “profondo” , come ogni
cineasta che si rispetti. Con una mossa abile ma anche altamente rischiosa,
decide di investire tutto quello che ha nel progetto che ha in mente,
inizialmente concepito come un cortometraggio, nonostante il parere contrario
degli addetti ai lavori, che lo vedono già come un disastro annunciato. Rollin,
per coprirsi le spalle, accetterà quindi un incarico per il biennio successivo con
la Impex, casa produttrice francese: il regista, in sostanza, sacrifica due anni di
lavoro pur di realizzare quel film. Stiamo parlando de La rosa di ferro.
La rosa in questione appare nei primi fotogrammi: si tratta semplicemente
di una rosa, realizzata in ferro.
Ma è tutto qui?
Basato su una trama ai limiti dell’ermetico, il film si può riassumere in due righe. Due ragazzi, incontratisi a un matrimonio, si danno un appuntamento per il weekend, durante il quale si perdono in un cimitero; sorpresi dalla notte, vagano tra le tombe, finchè la donna, apparentemente impazzita, compie un gesto folle.
Basato su una trama ai limiti dell’ermetico, il film si può riassumere in due righe. Due ragazzi, incontratisi a un matrimonio, si danno un appuntamento per il weekend, durante il quale si perdono in un cimitero; sorpresi dalla notte, vagano tra le tombe, finchè la donna, apparentemente impazzita, compie un gesto folle.
La concezione da cortometraggio, effettivamente, c’è: il
filmato sembra “spalmato” per circa 75 minuti, quando ne sarebbero bastati la
metà per descrivere il tutto. Lunghe sequenze monotone la fanno da padrone e l’impressione
generale, complice anche alcuni errori di continuità, ovvero laddove compaiono
sequenze non opportunamente collegate a quelle adiacenti o dove il nesso non
appare chiaro, è di non limpida chiarezza. Questo è evidente già nelle due sequenze iniziali: una ragazza (Françoise
Pascal) , quella che scopriremo essere la protagonista, in riva al mare, e la
stessa che amoreggia con un uomo sul predellino di un vagone, in una stazione. Sapremo
poi che quest’ultima scena avviene, in linea temporale, dopo che i due si sono
incontrati a una festa di nozze.
L’opera punta su due soli personaggi, interpretati dalla
bella Pascal e Hughes Quester, attori poco conosciuti, ma che qui danno una
prova discreta. La recitazione risente purtroppo degli errori suddetti, al
punto che spesso cade nel monocorde, anche se questo non è da imputare agli
attori. L’atmosfera di angoscia, di surreale a tratti, la sensazione di girare
sempre in tondo è comunque, probabilmente, voluta.
Dopotutto i due, in piena notte, si perdono nel grande
cimitero di Amiens, per cui gran parte del filmato mostra la coppia vagare tra
segnacoli e mausolei, e l’impressione generale di inquietudine non fa che
riverberarsi sullo spettatore.
Eppure, nonostante tutto, a fine visione, è forte l’idea che
la protagonista sia, in realtà, la sola donna, di cui non viene rivelato il
nome: in fin dei conti i due che vediamo sono persone come tante, due ragazzi che si attraggono,
solamente che per amarsi scelgono un luogo insolito. La ragazza, che era
sembrata inizialmente ingenua e leggermente svampita, una volta presa dalla
paranoia sembra acquistare una ragione tutta sua: trovandosi davanti i resti
mortali di alcuni bambini, sembra improvvisamente impazzire e adeguarsi al
contempo al luogo in cui si trova. Laddove era sembrata spaventata e a disagio,
ora si mostra quasi in uno stato di trance, mettendosi a danzare tra le tombe,
con fare sognante, sotto lo sguardo stranito del suo accompagnatore.
Cos’ha fatto sì che cambiasse idea così in fretta?
Il dualismo è chiaro ed è uno dei più classici, ossia quello
tra Amore e Morte, Eros e Thanathos. L’unica pecca che si può rimproverare a
Rollin è di aver reso la cosa estremamente semplificata: i protagonisti infatti
si ritrovano a consumare una serie di rapporti sessuali proprio in una tomba
sotterranea, e la vicenda finisce con la morte dei due.
Eva prima Pandora, Jean Cousin. |
Nascita di Venere, Alexandre Cabanel. |
I Quattrocenti Colpi, Francois Truffaut |
La rosa di ferro ricorre qui, ma sapremo che è un ornamento
funebre che la ragazza ha sottratto a una tomba, una chiave che fa da filo
conduttore al viaggio in cui il regista ci guida.
La rosa come simbolo di passione, di vita, ma anche di precarietà e perfino di segretezza (notare l’espressione latina sub rosa, in segreto, che ricorderemo ne Il codice Da Vinci) , costruita in ferro: è un antitesi forte, il simbolo di un fiore così delicato da durare un giorno solo, ma che può in questo modo durare per sempre.
La rosa come simbolo di passione, di vita, ma anche di precarietà e perfino di segretezza (notare l’espressione latina sub rosa, in segreto, che ricorderemo ne Il codice Da Vinci) , costruita in ferro: è un antitesi forte, il simbolo di un fiore così delicato da durare un giorno solo, ma che può in questo modo durare per sempre.
Uroborus |
Il cimitero, per l’appunto, visto generalmente come un luogo
triste, pieno di tristezza e disperazione, è, in una visione parallela, una
sorta di locus amoenus, contraltare
del giardino delle delizie e sua immagine speculare, dove in realtà non si
trova altro che eterea serenità, al massimo una sorta di venata malinconia.
Quello di Amiens, set principale del film, è popolato di bizzarre creature, e
non sembrano vedersi normali visitatori: una strana vecchina che funge da
custode, un misterioso uomo incappucciato, addirittura un clown, fanno la loro
comparsa, come macchiette su un palcoscenico, e soprattutto come se la loro
presenza fosse assolutamente naturale. Sembrano far tutti parte di un rito
collettivo e senza fine, un’umana rappresentazione, come se quel luogo fosse
fuori dal tempo e dallo spazio, esattamente come lo è il palcoscenico e per
esteso il set cinematografico.
Le strane comparse, come anche i due protagonisti, sono
ritratti con un contrasto cromatico estremamente riuscito: sembra un caso, ma
non lo è, che l’uomo sia vestito di rosso e la ragazza di giallo, spiccando in
modo netto nelle scene notturne, ma anche in quelle diurne, laddove il cimitero
presenta un ovvio monocromatismo. La nebbia, poi, non fa che evidenziare il
contrasto, coadiuvato anche da inquadrature spesso in controluce o comunque
molto scure e ombrose.
La mancanza di una colonna sonora è, come altre scelte, un espediente
che al contempo può stancare lo spettatore meno temprato, ma risulta
affascinante a quelli più navigati. Il suono del silenzio in un cimitero è una
scelta estremamente realistica, suggestiva e anche coraggiosa, e sottolinea
così scene cruciali, regalando un tocco di giusta sacralità.
Il film si apre e si chiude con un tocco deciso e delicato,
come può esserlo il suono di un vecchio chiavistello. Le parole della giovane
donna che suggellano l’opera sono ermetiche e raggelanti come poche “Siete
tutti morti. Noi viviamo” . Parole che sottolineano la sua estrema decisione di
non voler appartenere più ai vivi, come a dire che per scegliere una vita nuova
e vera basta solo volerlo.
Si tratta di un film controverso, che non ha goduto di
giusta fama per motivi anche condivisibili, ma certamente molto più profondo
del resto delle opere di Jean Rollin che invece risultano a tutt’oggi
ancora famose, nonostante siano di spessore indubbiamente minore rispetto a
quello in esame. Probabilmente avrebbe potuto essere maggiormente apprezzato se
il regista avesse approfondito i contenuti, che spesso risultano solo
accennati, magari sperando in una resa più ermetica e simbolista, che non è
stata, purtroppo, completamente recepita.
-R.
-R.
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