giovedì 28 febbraio 2013

SettimArte: Gerald McMorrow - Franklyn


ANNO: 2008
PAESE: Francia, Uk
REGIA: Gerald McMorrow
SCENEGGIATURA: Gerald McMorrow
FOTOGRAFIA: Ben Davis




Che cos’è Franklyn?
Inutile stare a sbizzarrirsi, non ne ricaverete niente: Franklyn è, sorpresa sorpresa, un nome su un campanello che suona nell’appartamento sbagliato.
Franklyn, anno 2008, fa parte del filone di film tratti da comic novel che…no, sbagliato.
Complice una campagna di promozione fuorviante (in calce il trailer italiano ) , l’unica opera di Gerald McMorrow è finita per essere assimilata ai coevi V per Vendetta e Watchmen. Non che non ci siano elementi in comune, se elemento in comune si può considerare una maschera da teschio.
I fumi, le guglie, la cupezza, il fanatismo religioso: ecco le caratteristiche di Città di Mezzo. Nessun riferimento tolkeniano, si tratta solo della malaccorta traduzione di Meanwhile City, letteralmente “Città Nel Frattempo” , il che la dice lunga: la città ci viene presentata immediatamente, avendo l’impressione che sarà la nostra ambientazione per tutto il tempo della pellicola. Sbagliato anche questo, visto che dopo pochi minuti pare chiaro che il regista ci sta conducendo su un binario parallelo tra la Londra contemporanea e quello di Meanwhile City, ed il dubbio, come diceva Borges, è: chi sogna chi? E se sogna perché?
Altri binari corrono: sono quattro storie parallele che apparentemente non hanno nulla da spartire, la giovane artista aspirante suicida, il ragazzo abbandonato sull’altare, il padre che cerca il figlio scomparso, l’ateo nella città oscura dalle mille religioni. Ognuno con una mancanza, una perdita, che cerca di colmare in modi disperati e illusori: la prima tenta il suicidio una volta al mese per esasperare madre e insegnanti, il secondo tenta di sostituire alla propria famiglia distrutta una fede cieca, il terzo va in cerca della sua amichetta d’infanzia, il quarto si professa paladino della giustizia andando in cerca del capo di una setta, un “visionario” (peccato che il termine possa descrivere altrettanto bene sé stesso) che ha ucciso una bambina.

Tramite un linguaggio visivo e narrativo lento e cadenzato, flemmatico e misurato come solo i film inglesi possono esserlo, McMorrow costruisce lentamente il proprio puzzle. Non è un caso se quello che sembra il personaggio onnisciente dell’opera, un addetto alle pulizie di un ospedale, sia spesso inquadrato mentre, da solo, compone torri e strutture con piccoli oggetti e zollette di zucchero. E, vero alter ego dello scrittore, annota tutto, anche se il cosa rimane un mistero per lo spettatore.
A fronte della pesantezza narrativa del film, l’opera è forte, appunto, di un intreccio notevole: come già dicevano altrove in questo blog, la scelta da effettuarsi in fase di stesura è spesso quella sulle priorità. Come accade tra alta letteratura e letteratura di genere, il dilemma è tra dare importanza alla trama in sé o alla ricerca, psicologica, ideologica, tecnica, artistica.
Franklyn fa un po’ tutto, divenendo croce e delizia dei cinefili: onnicomprensivo, illuminato, eclettico, eppure purtroppo poco approfondito in alcuni punti, McMorrow pare preferire dare un assaggio di tutto e questo a ogni livello.
Partiamo dalle citazioni gothic, con le metropoli futuristiche, al limite con lo steampunk, buie e piene di confusione come lo sono Gotham City (Batman, 1989) , la Detroit de Il Corvo, la Los Angeles di Blade Runner, la Londra di Arancia Meccanica, citata anche nell'inseguimento notturno e nel gusto dandy dei costumi, proseguendo con gli intrecci paradossali dal sapore fantascientifico, sulla scia di Donnie Darko, alla composizione a matrioska, rimando a Christopher Nolan, senza dimenticare però una traccia di giusta psicologia, un velo di noir, un pizzico di thriller, il tutto condito dalle musiche dei Malachai, che in certi tratti rimandano, a loro volta, ai Television di Tom Verlaine.

Importante la doppia scena che vede citata La morte della Vergine di Caravaggio, opera scandalosa all’epoca della sua presentazione, come scandalosa è tutta l’opera di Emilia, vittima della visione in cui il quadro prende vita davanti a lei in una corsia di ospedale.
Una formula del genere è tanto esplosiva quanto scomoda e ciò è un peccato, perché il film regala vere chicche, in primis la pregiata fotografia, fatta di chiaroscuri decisi, luci mirate, senza eccessi e sbavature, tanto neutre da non fare distinguere il giorno dalla notte in alcune inquadrature, compresse e riempite da architetture gotiche e metropolitane nelle esterne, barocche e industriali nelle interne. A tal proposito, difficile non notare la versatilità della macchina da presa, la sua adeguatezza in ogni scena. Notiamo con quanta timidezza la camera si muove negli interni della Londra dei nostri tempi, nell’atelier di Emilia, l’artista, nella casa di Esser, il padre, di nascosto, come nella migliore tradizione dei film horror, in cui il regista prende per qualche attimo il punto di vista del serial killer e ci fa vedere la scena coi suoi occhi. Importante, perché vedremo che proprio Emilia produrrà un lavoro accademico impostato proprio sul seguire e riprendere sconosciuti. Al contempo le riprese a Meanwhile City sono aeree, immense, vertiginose, atte a dimostrare da un lato la maestosità (riprese dall’alto, panoramiche) , dall’altro lo straniamento (riprese dal basso, interni) .
Si tratta di un complesso gioco di molteplici doppi personaggi e molteplici doppie versioni, il tutto reso da un montaggio alternato da seguire rigorosamente passo passo.

“Il cantastorie era così abituato alle sue fantasie che non importava quanto fosse bella la realtà. Non gli bastava. Non sarebbe mai bastata”
L’opera è ahimè intrisa di citazioni che amiamo definire “le perle segnalate” , ossia i classici stilemi da film, le frasi illuminate e profonde che risulta difficile immaginare in un contesto reale. La frase appena citata, però, è centrale: riusciranno i nostri eroi a scardinarsi dall’amato baco di seta delle proprie illusioni, del dolce cullarsi nel proprio mondo fatato e prendere coscienza di ciò che avviene intorno a loro? I nostri quattro protagonisti lo faranno, drasticamente e brutalmente, con un colpo di pistola alla persona sbagliata, che ci fa fare un sonoro tonfo, a tutti, nel mondo reale, a cercare di mettere insieme i fili della narrazione sotto una pioggia torrenziale. E allora vanno al loro posto le  frasi ambigue, i riferimenti, le mezze parole.
Sebbene la recitazione pecchi in alcuni punti sappia di legno (Ryan Philippe che funziona meglio con la maschera che senza) , ma raggiunge anche vette inaspettate (o forse no: Eva Green si riconferma degna erede di Michelle Pfeiffer nel classico ruolo della bella psicopatica) , i personaggi risultano alquanto verosimili, seppure con le loro storie ai limiti del paradosso. Sembra una riconferma della massima secondo cui la realtà supera l’immaginazione. Difatti, a fine visione, mentre abbiamo appurato e dato per buona la “irrealtà” di Meanwhile City, risultiamo spiazzati da come le molteplici linee riescano a incrociarsi in un unico punto, e così generare il caos, anche solo per pochi attimi: non sappiamo infatti se i binari dei protagonisti si divideranno di nuovo, appena dopo lo schermo nero.
Opera che, sebbene non invogli la seconda visione, va rivisto e ri-apprezzato.

-R.



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