mercoledì 14 novembre 2012

SettimArte: Nico Cirasola - Bell'epokér


Regia: Nico Cirasola
Anno: 2003
Paese: Italia
Genere: drammatico
Sceneggiatura: Nico Cirasola, Paolo Cimmino
Cast:  Totò Onnis, Frank Lino, Dino Abbrescia, Mariolina De Fano, Dante Marmone.


Film sofferente, nella tessitura come nella realizzazione, osteggiato e scomodo, rappresenta un certo cambiamento, seppure lieve, nello stile solito di Nico Cirasola. Lo abbiamo visto sempre, sì, operare sul sud più sud, ma qui le cose stanno diversamente. Non ci sono i paesaggi da cartolina, qui, ma un’amara presa di coscienza di ciò che si nasconde dietro il sipario, non solo quello del teatro.

Protagonista assoluto è il Politeama Petruzzelli di Bari, in particolare la sua distruzione a causa di un incendio (doloso) nel ’91. Gli altri personaggi sono una cosa a parte, attori che recitano una parte, inconsapevolmente però. Il teatro, volutamente, non è mai citato per intero, come se si desse per scontato che c’è, esiste, vive. Il teatro che, una volta tanto, non è visto come il palco capace al massimo di suscitare qualche cenno di commozione nel pubblico lì davanti, si parla di un teatro avulso per un attimo alle forme d’arte, visto nella sua grandezza, come un’istituzione, un “monumento” come dicono gli stessi attori nell’opera. Teatro come vita vissuta, e basta. E vita vissuta in funzione del teatro, se dobbiamo considerare i vari punti di vista dei personaggi di questa pellicola corale, tutti orbitanti intorno alla struttura ma al contempo tutti così diversi tra loro, volutamente organizzati in classi di appartenenza.
Come è buona regola di Cirasola, che qui non si smentisce, è sovvertito l’ordine logico (e anche cronologico) degli avvenimenti, per sottolineare ancor più come le cose cambiano e al contempo restano le stesse o, ancora meglio, bisogna che tutto cambi perché tutto resti uguale. Personaggi compresi, i quali interpretano le stesse parti nelle varie fasi temporali, come se si volesse dimostrare il fatto che gli attori sono usati completamente ai fini della celebrazione del teatro.

Si parte dalla sua costruzione, decisa da un gruppo di notabili della città, come struttura in grado di esprimere la grandezza della stessa, designata nuova capitale. Vediamo comparire il familiare latifondo, in una scena tra le più topiche dell’opera, in cui il proprietario del fondo è restio a cederlo solo perché “proprietà  di famiglia” , neanche fosse un souvenir. La stessa scena la troveremo all’inverso e “specchiata” alla fine, in cui il padrone vende finalmente il terreno.


Poi si prosegue con le varie epoche, dagli inizi ‘900 si passa a gli anni del dopoguerra e poi agli anni contemporanei, ma le situazioni sono sempre quelle, quasi non ci stupiamo di trovare i personaggi prima in frac e poi in jeans. Non c’è niente da fare, l’uomo continuerà a fregare sempre il prossimo suo, e difatti la Puglia solitamente cantata in toni celebrativi dal regista, qui ne esce veramente male: sono evidenziati in nuce i problemi della mala sanità, dell’arricchimento sfrenato a discapito addirittura delle norme di sicurezza più elementari (“Eh! Un incendio in un teatro?”) , all’umiliazione dei più poveri, o meglio, dei lavoratori. Perché qui è la classe bene a essere presa di mira, con i suoi mille vizi, primo tra tutti è proprio il fatto di non dover mai, in nessun caso, lavorare, e anzi appunto prendersi gioco di chi lo fa per loro (“Mangia pane a tradimento!” come dice uno di loro al ragazzo che lavorava) . Facciamo un salto indietro di 500 anni: chi non si ricorda che nel nell’antichità, nel Medioevo una delle differenze sociali di base era quella che chi lavorava erano i più umili? Pare proprio che il lavoro sia una malattia, e forse non l’unico. Questi “signori” si macchiano dei vizi più turpi e perfino delitti, in nome di deliri personali. A questo proposito, ricordiamo la figura perfettamente delineata dello strozzino, che sembra uscito da un romanzo di Dickens ma è il perfetto emblema di questa classe sociale, che non si accontenta mai, arrivando a ritorcere il male su sé stessa.

Se ci era sembrato di rivedere Fellini con il riferimento circense dell’inizio, non ci siamo sbagliati più di tanto, il tutto pare non avere senso agli occhi del ragazzo, il figlio del custode con i cui occhi vediamo l’azione ed è l’unico a non “invecchiare” . Ha sì una femme fatale, ma riesce a non uscire di senno e va dritto per la sua strada. I valori, in un’ottica forse un po’ buonista, sono depositati nell’animo della gente come lui e suo padre, unico che rimane a vedere il “suo” teatro bruciare mentre tutti scappano, in un omaggio a Nuovo Cinema Paradiso.


La pellicola è un po’ claustrofobica per la mancanza pressoché totale di esterne, è tutto girato in angusti spazi, quelli creati a ad arte che rappresentano proprio il teatro, in particolare le quinte del teatro, e quindi tende, tendoni, che rendono il quadro ancora più piccolo e piena di ombre, mentre i tocchi di colore, sempre cupi, sono dati da oggetti, accenni, capi di vestiario, in particolare delle donne, che per l’appunto sembrano tutte ridicolmente uscite da un cabaret. Solo i “Buoni” , i custodi sono spesso in bianco, anzi “pulito” ; sono numerose le scene del padre che mette a letto il piccolo e gli racconta, nella migliore delle tradizioni, una storia. Ne deriva che i primi piani e quelli americani sono accentuati e particolarmente curati. Fa però molta suggestione la scena del loggione del teatro ripreso dal basso durante una serata, con un rapido movimento la camera passa al palco, quasi sottosopra. Di fatti le inquadrature più spaziose sono tutte così vertiginose. Si prova questa sensazione, come se si fosse stati tutto il tempo dietro le quinte a giocare a poker e all’uscita si avvertisse una specie di fobia alla luce, sebbene questa sia elettrica.

Se all’inizio, nelle scene “contemporanee”, le cose possono sembrare cambiare, ci accorgiamo poi, dobbiamo ammetterlo, che non è così: cambiano i mezzi, le parole, i modi, ma siamo sempre al punto di partenza, come in una labirinto da cui non si trova l’uscita. Unico modo è ricominciare sempre tutto daccapo, ripetere tutto fino a capire dov’è l’”anello che non tiene”, come diceva Montale. E qui, come dice bene proprio uno dei “signorotti”, purtroppo non conta neanche quanto sia buona una singola persona, si vive tutti insieme e si spartiscono meriti e demeriti. A uscirne male è tutta la società barese, se vogliamo quella italiana, e il film risulta quindi una critica ragionata e sottile.


-R.

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