Regia: Nico Cirasola
Anno: 2003
Paese: Italia
Genere: drammatico
Sceneggiatura: Nico Cirasola, Paolo Cimmino
Cast: Totò Onnis,
Frank Lino, Dino Abbrescia, Mariolina De Fano, Dante Marmone.
Film sofferente, nella tessitura come nella realizzazione,
osteggiato e scomodo, rappresenta un certo cambiamento, seppure lieve, nello
stile solito di Nico Cirasola. Lo abbiamo visto sempre, sì, operare sul sud più
sud, ma qui le cose stanno diversamente. Non ci sono i paesaggi da cartolina,
qui, ma un’amara presa di coscienza di ciò che si nasconde dietro il sipario,
non solo quello del teatro.
Come è buona regola di Cirasola, che qui non si smentisce, è
sovvertito l’ordine logico (e anche cronologico) degli avvenimenti, per sottolineare
ancor più come le cose cambiano e al contempo restano le stesse o, ancora
meglio, bisogna che tutto cambi perché tutto resti uguale. Personaggi compresi,
i quali interpretano le stesse parti nelle varie fasi temporali, come se si
volesse dimostrare il fatto che gli attori sono usati completamente ai fini
della celebrazione del teatro.
Si parte dalla sua costruzione, decisa da un gruppo di
notabili della città, come struttura in grado di esprimere la grandezza della
stessa, designata nuova capitale. Vediamo comparire il familiare latifondo, in
una scena tra le più topiche dell’opera, in cui il proprietario del fondo è
restio a cederlo solo perché “proprietà
di famiglia” , neanche fosse un souvenir. La stessa scena la troveremo
all’inverso e “specchiata” alla fine, in cui il padrone vende finalmente il
terreno.
Poi si prosegue con le varie epoche, dagli inizi ‘900 si
passa a gli anni del dopoguerra e poi agli anni contemporanei, ma le situazioni
sono sempre quelle, quasi non ci stupiamo di trovare i personaggi prima in frac
e poi in jeans. Non c’è niente da fare, l’uomo continuerà a fregare sempre il
prossimo suo, e difatti la Puglia solitamente cantata in toni celebrativi dal
regista, qui ne esce veramente male: sono evidenziati in nuce i problemi della
mala sanità, dell’arricchimento sfrenato a discapito addirittura delle norme di
sicurezza più elementari (“Eh! Un incendio in un teatro?”) , all’umiliazione
dei più poveri, o meglio, dei lavoratori. Perché qui è la classe bene a essere
presa di mira, con i suoi mille vizi, primo tra tutti è proprio il fatto di non
dover mai, in nessun caso, lavorare, e anzi appunto prendersi gioco di chi lo
fa per loro (“Mangia pane a tradimento!” come dice uno di loro al ragazzo che
lavorava) . Facciamo un salto indietro di 500 anni: chi non si ricorda che nel
nell’antichità, nel Medioevo una delle differenze sociali di base era quella
che chi lavorava erano i più umili? Pare proprio che il lavoro sia una
malattia, e forse non l’unico. Questi “signori” si macchiano dei vizi più turpi
e perfino delitti, in nome di deliri personali. A questo proposito, ricordiamo
la figura perfettamente delineata dello strozzino, che sembra uscito da un
romanzo di Dickens ma è il perfetto emblema di questa classe sociale, che non
si accontenta mai, arrivando a ritorcere il male su sé stessa.
Se ci era sembrato di rivedere Fellini con il riferimento
circense dell’inizio, non ci siamo sbagliati più di tanto, il tutto pare non
avere senso agli occhi del ragazzo, il figlio del custode con i cui occhi vediamo
l’azione ed è l’unico a non “invecchiare” . Ha sì una femme fatale, ma riesce a non uscire di senno e va dritto per la
sua strada. I valori, in un’ottica forse un po’ buonista, sono depositati
nell’animo della gente come lui e suo padre, unico che rimane a vedere il “suo”
teatro bruciare mentre tutti scappano, in un omaggio a Nuovo Cinema Paradiso.
La pellicola è un po’ claustrofobica per la mancanza
pressoché totale di esterne, è tutto girato in angusti spazi, quelli creati a
ad arte che rappresentano proprio il teatro, in particolare le quinte del
teatro, e quindi tende, tendoni, che rendono il quadro ancora più piccolo e
piena di ombre, mentre i tocchi di colore, sempre cupi, sono dati da oggetti,
accenni, capi di vestiario, in particolare delle donne, che per l’appunto
sembrano tutte ridicolmente uscite da un cabaret. Solo i “Buoni” , i custodi sono
spesso in bianco, anzi “pulito” ; sono numerose le scene del padre che mette a
letto il piccolo e gli racconta, nella migliore delle tradizioni, una storia. Ne
deriva che i primi piani e quelli americani sono accentuati e particolarmente
curati. Fa però molta suggestione la scena del loggione del teatro ripreso dal
basso durante una serata, con un rapido movimento la camera passa al palco,
quasi sottosopra. Di fatti le inquadrature più spaziose sono tutte così
vertiginose. Si prova questa sensazione, come se si fosse stati tutto il tempo
dietro le quinte a giocare a poker e all’uscita si avvertisse una specie di
fobia alla luce, sebbene questa sia elettrica.
Se all’inizio, nelle scene “contemporanee”, le cose possono
sembrare cambiare, ci accorgiamo poi, dobbiamo ammetterlo, che non è così:
cambiano i mezzi, le parole, i modi, ma siamo sempre al punto di partenza, come
in una labirinto da cui non si trova l’uscita. Unico modo è ricominciare sempre
tutto daccapo, ripetere tutto fino a capire dov’è l’”anello che non tiene”,
come diceva Montale. E qui, come dice bene proprio uno dei “signorotti”,
purtroppo non conta neanche quanto sia buona una singola persona, si vive tutti
insieme e si spartiscono meriti e demeriti. A uscirne male è tutta la società barese,
se vogliamo quella italiana, e il film risulta quindi una critica ragionata e
sottile.
-R.
-R.
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