Titolo: Tideland – Il mondo capovolto
Regia: Terry Gilliam
Anno: 2005
Anno: 2005
Paese: Canada/G.B.
Sceneggiatura: Tony Grisou, Terry Gilliam
Produzione: Gabriella Martinelli, Jeremy Thomas
Con: Jodell Ferland (Jeliza-Rose) , Jeff Bridges (Noah) ,
Brendan Fletcher (Dickens) , Janet McTeer (Dell)
Terry Gilliam, fuoriuscito dei Monty Python, mette in scena
quella che potrebbe sembrare l’ennesima versione dell’Alice di Carroll.
Una bambina, fresca orfana di madre, viene portata dal padre,
un rocker evidentemente fallito, nella sua casa d’infanzia, vecchia e
malridotta. La piccola Jeliza-Rose, fantasiosa ventriloqua, vive del tutto
immersa nel suo mondo immaginario, i pochi contatti con la realtà si perdono al
momento del trasferimento in campagna e definitivamente, poi, con la morte del
padre. La bambina pare non accorgersene e continua a tenere il cadavere del
padre seduto in poltrona, curandolo e nutrendolo.
Ovviamente qui entrano necessariamente in gioco altri
personaggi: Dickens, un ragazzo affetto da epilessia e vittima di lobotomia
(oltre che di abusi sessuali, vedremo) e Dell, allucinata strega del posto, che
vive rintanata in casa, per paura del sole e delle api. Oltre ai due bizzarri e
inquietanti personaggi, la piccola ha per amiche tutte una serie di teste di Barbie,
con cui parla e si confida.
La trama è tutta una successione di eventi ai limiti
dell’assurdo, situazioni da incubo o da sogno, a seconda dei casi: scoiattoli
parlanti, treni-squalo, addirittura la mummificazione di un cadavere. I tre
personaggi, col morto, sono completamente distaccati dalla realtà. Neanche un
disastro ferroviario, avvenuto, tra l’altro, a causa loro, li riesce a
distogliere. La bambina, persa e ritrovata, come nella migliore tradizione,
sembra ritrovare una fata madrina che sembra accoglierla proprio nel finale.
Questo non vuol dire però che sia un happy ending:
Jeliza-Rose non sembra rinunciare ai suoi sogni d’infanzia, come si desume
dall’ultima battuta (“Sono amiche mie, hanno anche dei nomi” , riferendosi alle
lucciole) .
Il film sembra una classica favola nera nella sua struttura
ellittica, con questo susseguirsi di immagini se vogliamo tipiche del sogno,
irreali: la voce di una bambina nell’incipit legge Alice nel Paese delle
Meraviglie (ancora non parte il visivo) , ora la stessa piccola è visualizzata
nell’ombra di uno scuolabus rovesciato, mentre parla con le lucciole: per lei
sono fate, lo si desume dai modi in cui le chiama (Titania, per fare un
esempio) , una canzone con il suo nome, sapremo che è lo stralunato omaggio che
il padre le ha dedicato. Ed ecco, il padre, un affollato concerto rock, un non
più non giovane artista sul palco e poi nella sua fatiscente dimora, con moglie
e figlia. A seguito del viaggio in autobus entriamo in un altro mondo, per
riemergerne solo alla fine, in maniera speculare, ellittica appunto, con il
drammatico ritorno al reale rappresentato dal deragliamento del treno. Sul
finire tornano le fate, il cielo stellato e con i piccoli occhi luminosi di
Jeliza-Rose in sovrimpressione termina la visione.
Non esistono veri e propri dialoghi, bensì una serie di
monologhi incrociati: ognuno pensa a sé, al suo mondo, e la situazione diventa
a dir poco allucinante nella casa in campagna. Non che prima le cose fossero
migliori: emblematica la scena della madre che, dopo aver coperto d’insulti la
piccola, le chiede di farle dei massaggi e qui esonda in una esagerata e
lisergica dimostrazione d’affetto (“Prima o poi farò qualcosa di davvero bello
per te”) condita di smancerie e luoghi comuni (che la fanno da padrone per
tutta la durata della pellicola) finchè scopre che la manina della piccola è
tesa ad afferrare una barretta di cioccolato, e torna quindi a bestemmiare.
Molto Courtney Love e Duchessa carrolliana, sempre pronta a sbatacchiare il suo
piccolo da un lato all’altro della stanza al minimo accenno di pianto. Il
trucco sfatto della madre e le ombre sul suo viso accentuano il distacco: non
c’è nessuna differenza tra lei e il suo cadavere, bruciato in una pira, in un
momento tragicomico e caustico.
Noah, il padre, non è da meno, del tutto immerso nei suoi
viaggi, reali o iniettati, e si occupa della piccola solo a voce. Anche qui non
pare esserci molta differenza tra lui vivo o morto, la bimba sembra cavarsela
egregiamente da sola.
La piccola Alice del film, che scopriamo, stupiti,
straordinariamente avvezza all’uso di siringhe e “cosini” (come lei chiama il
ciondolo dalla forma fallica che le presenta Dickens) , ci tiene col fiato
sospeso fino alla fine. Troppi lati oscuri da scoprire, troppo complessa la figura
di questa minuscola donna, troppo cresciuta, ma giustificata dal fatto che lei
il suo mondo immaginario l’ha dovuto costruire di necessità. Il suo era fatto
di morti e sporcizia, di figure troppo grandi per lei, di ombre troppo paurose
per una bambina.
Anche il nome della sua testa di Barbie preferita è tutto un
programma: Miss Take, che potrebbe leggersi anche “mistake” , sbaglio. E non è
un errore trovarsi lì, in un mondo che non le appartiene? Ripensiamo anche alla
frase che troppi genitori sciagurati ripetono ai propri figli “sei solo uno
sbaglio” . Le riprese di traverso, che troviamo specialmente nei campi lunghi e
lunghissimi, suggeriscono bene l’idea: per vedere bene in questa pazza porzione
di terra dobbiamo osservare le cose da un’ottica distorta, come i personaggi.
Dickens si pone in essere come il perfetto compagni di
giochi della piccola, anche se sul finale abbiamo temuto la scena di un suo
abuso nei confronti dell’amichetta. Rappresenta probabilmente la possibile proiezione
futura della bambina: sui corpi dei due, i segni di un’infanzia negata. Per lui
però, i sogni non sono fatati e ingenui, ma diversi e pericolosi: il suo
nemico, uno squalo, è in realtà un treno carico di passeggeri, che sarà lui
stesso a far deragliare, provocando la strage finale. Sul luogo del delitto, lo
vediamo muoversi come un fantasma, seguito dalla camera in panoramica insieme
ai feriti, perseguendo però un destino diverso, perso nell’oscurità illuminata
solo dall’incendio da lui stesso provocato. I rimandi al capitano Achab sono
evidenti e non solo per i suoi sogni marinareschi: anche lui, come il tetro
capitano, ha perduto una parte del corpo nello scontro con un essere più grande
di lui, nel suo caso l’epilessia, la sua balena bianca, che continua
beffardamente a tormentarlo.
L’enigmatica Dell, la reclusa viva, è la figura più
sconcertante ed enigmatica del film. Ossessionata dalla morte della madre e
dalla sua disgrazia personale (l’occhio) , che lei stessa si è provocata, ha
solamente anticipato il disastro combinato da Dickens. Particolarmente
pregnante è la scena dell’incontro con Jeliza-Rose: cielo azzurro e campo di
grano, e lei che rompe quell’idilliaco paesaggio con la sua figura di dama in
nero, orribile megera accecata per metà, controluce, e contro la luce. La scena
non può non ricordare l’incontro di Edipo con l’Oracolo di Delfi di pasoliniana
memoria. E se non è propriamente un oracolo, Dell ha comunque tutte le
caratteristiche per assomigliargli, con il suo look strambo, le sue frasi senza
senso, la sua aria minacciosa. Assistiamo a ben due mummificazioni da lei
operate, su sua madre e sul padre di Jeliza-Rose, con cui tra l’altro non è ben
chiaro il rapporto. Il tema della conservazione in morte è un’altra costante:
anche Noah aveva parlato di “cadaveri vecchi di 2000 anni” , augurandosi di
fare la stessa fine.
La piccola invece non sembra dello stesso avviso, anche se
il suo continuare a occuparsi del padre da morto - con risvolti macabri che non
riescono a essere, nonostante tutto, disgustosi, grazie alla freschezza e alla
spontaneità della bambina – sembra dettato dal suo non voler accettare la
realtà, per l’ennesima volta, almeno non correttamente (“Ma cos’è questa
puzza?” si chiede a un certo punto, quando è chiaro che si tratta dell’odore
della decomposizione) . Suggestive le sue immagini nel grano, in alternanza
primi piani, anche controluce, dettagli sulle teste di Barbie, campi lunghi sul
grano, in un’atmosfera di solarità, forse un po’ malsana, condita da qualche
ombra: azzeccatissima quella sul viso della bambina mentre parla con Dell sulla
mummia del padre, il faccino fresco è rabbuiato da un’ombra persistente,
fastidiosa, a significare la minacciosa presenza della strega, ma anche a
mettere in dubbio l’innocenza della piccola.
Stupendo come tutto venga ombreggiato con una tranquillità
disarmante, lenti movimenti di camera a seguire, anche nelle situazioni più outrageous (il termine inglese rende
molto meglio il senso di oltraggioso, oltre ogni aspettativa) , la
decomposizione del cadavere di Noah, il rapporto sessuale tra Dell e un
malcapitato fattorino. Quest’ultima è una delle scene più divertenti,
interessante anche dal punto di vista filmico, con l’approdo alla situazione
dal sogno di Jeliza-Rose; bello anche il dettagli in contro-plongée della mano
del ragazzo, terrorizzato, che afferra la cassetta.
Anche le due scene del tè-con-morto, trasmesse per osmosi da
Carroll, e del riassetto della casa, con Dell nella veste di una strampalata
sacerdotessa. Lei, che aveva appena spiegato alla piccola che “non bastano una
parrucca e un po’ di trucco” per mettere a posto le cose, predicando bene ma
razzolando malissimo, comportandosi nell’esatto opposto mummificando i cadaveri
e ridipingendo la casa, due operazioni che non servono a molto, se non a dare
l’impressione che le cose si siano conservate, sistemate, messe a posto. Basta
qualche scena a rendere la realtà dei fatti, e la casa, che subito dopo la
messa a nuovo sembrava più solare, ora,
di notte, col bianco delle pareti a sottolineare ombre ancora più scure di
prima, da paura, rendendo appieno l’atmosfera di quel covo di confusione e
ambiguità.
E se questi sentimenti sono quelli che aleggiano per tutta
la pellicola, possiamo solo sperare che Jeliza-Rose trovi una via di scampo da
quel mondo. La sconosciuta passeggera del treno che nel finale si prende cura
della piccola, però, così miracolosamente illesa, e stranamente sola, non
riesce a essere rassicurante fino in fondo, ricordando quasi la misteriosa
signora in bianco di Storie da leggere con
la luce accesa, di Chris Priestley, di qualche anno più tardi, anche lei
passeggera di un altro sfortunato treno, e che si rivela essere nient’altro che
la Morte incarnata.
-R.
-R.
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