lunedì 19 novembre 2012

Amor vincit Omnia (Amore vittorioso)


L’Amore vince su tutto.  Basta il titolo dell'opera a giustificare le fattezze di questo putto ridente, completamente nudo che rivolge lo sguardo beffardo verso il lettore. Caravaggio dipinse quest’opera tra il 1602 ed il 1603, su commissione del marchese Vincenzo Giustiniani, ricco banchiere genovese  che lo pagò ben 300 scudi. Oggi il prestigioso olio su tela (156 x 113 cm) è conservato al Staatliche Museen di Berlino. Divertente e un po’ sfacciato, questo dipinto rappresenta il dio Amore, completamente nudo, che rivolge allo spettatore un sorriso di vittoria e di sfida. La caratteristica luce radente illumina solo in parte il viso del protagonista, lasciando il lettore avvolto da un’aria di mistero e ambiguità.Dallo sfondo scuro emergono degli oggetti in primo piano: spartiti e strumenti musicali sono accostati ad un’armatura, così come il nascosto globo terrestre alla squadra e compasso. Questi oggetti alludono certamente alle varie arti, scienze e discipline che caratterizzavano il mondo seicentesco e delle quali numerosi pensatori hanno parlato e trattato. L’intento di Caravaggio è dimostrare al suo pubblico che l’Amore vince ed è superiore a qualsiasi cosa (come lo esplicita lo stesso titolo). Come in precedenti opere, l’artista scelse di dipingere i suoi personaggi partendo da modelli in carne ed ossa, come se fossero dei ritratti. Per questa tela posò il garzone preferito di Caravaggio, Cecco Boneri, col quale si dice che il pittore avesse una relazione. D'altro canto, i sostenitori dell'omosessualità di Caravaggio ritengono che, tramite il gesto della mano destra, il fanciullo “inviti” lo spettatore a raggiungerlo sul letto dove posa a gambe divaricate con aria provocatoria. Questa tesi può essere però smentita: Caravaggio era un grande ammiratore dell’arte michelangiolesca, secondo la quale con la posa a gambe sollevate o divaricate si alludeva alla resurrezione, alla vittoria e al trionfo (ci sono infatti delle somiglianze con i titanici personaggi della Sistina). Il quadro divenne subito, insieme al “Suonatore di liuto”, il dipinto più bello e più celebre della collezione Giustiniani, tant'è vero che Giovanni Baglione, rivale del Caravaggio, tentò inutilmente di dipingerne una copia.Riallacciandoci alla committenza, "Amor vincit omnia" doveva avere una posizione di privilegio all’interno della galleria pittorica dell’appassionato collezionista. Il marchese Giustiniani, che condivideva il palazzo con il fratello cardinale, aveva fatto collocare davanti all’opera una tenda verde: da una parte per un senso di pudore, dall'altra per riservare solo agli ospiti di riguardo il privilegio di osservare la tela. Non meno importante il motivo legato alla sorprendente vitalità dell'Amore vittorioso che potesse oscurare e rendere malinconiche tutti le altre opere della pur splendida raccolta. Queste accortezze non fecero che accrescere ulteriormente la celebrità della tela, ripetutamente imitata dai pittori e cantata dai poeti. Gli antichi inventari della collezione Giustiniani proposero addirittura un’ interpretazione dal senso etico: l’amore e la lussuria allontanano l’uomo dallo sviluppare le più elevate e degne qualità morali e intellettuali, distraendolo dai suoi obiettivi più profondi. Certo, difficile pensare a questa ipotesi se a realizzare il ritratto è il “maledetto” Caravaggio.
                                                                                               -Federica


venerdì 16 novembre 2012

Friday boulevard: the best of the week

Un'altra settimana volge al termine e sembra che il freddo, stavolta, sia arrivato per davvero! Mentre sorseggiate, quindi, una bella cioccolata calda ecco per voi una selezione delle notizie migliori della settimana!

Si parte da artribune.com dove ho trovato un articolo bellissimo sulle cover storiche dei vinili, un articolo davvero interessante che mi è piaciuto molto e che consiglio a tutti di leggere. Interessante anche questo articolo sulla mostra a New York dedicata a Rothko, Bacon e Pollock e un articolo sulla storia della rivista italiana "QUI arte contemporanea".

Dal sito di arte.it segnalo invece due articoli: il primo sull'asta di pittura e fotografia per beneficenza a favore di Venezia e dell'Emilia, il secondo sul restauro dopo 4 anni di lavoro della "Madonna col bambino" di Mantegna, ora nuovamente esposta al pubblico.

Per concludere questi due articoli, il primo dal sito americano di Rolling Stone, dove leggo che i due Who superstiti testinonial per la battaglia contro il cancro infantile (ndr: stima infinita per loro due) e il secondo, da cineblog.it, dedicato a Ben Stiller, premiato per il suo contributo al cinema.

Auguro a tutti i lettori un buon week-end rinnovando l'appuntamento per lunedì e anticipando che a breve (dopo questo periodo un po' movimentato che c'è stato) ci saranno alcune gustose novità!

                                                                                                    - P.



mercoledì 14 novembre 2012

SettimArte: Nico Cirasola - Bell'epokér


Regia: Nico Cirasola
Anno: 2003
Paese: Italia
Genere: drammatico
Sceneggiatura: Nico Cirasola, Paolo Cimmino
Cast:  Totò Onnis, Frank Lino, Dino Abbrescia, Mariolina De Fano, Dante Marmone.


Film sofferente, nella tessitura come nella realizzazione, osteggiato e scomodo, rappresenta un certo cambiamento, seppure lieve, nello stile solito di Nico Cirasola. Lo abbiamo visto sempre, sì, operare sul sud più sud, ma qui le cose stanno diversamente. Non ci sono i paesaggi da cartolina, qui, ma un’amara presa di coscienza di ciò che si nasconde dietro il sipario, non solo quello del teatro.

Protagonista assoluto è il Politeama Petruzzelli di Bari, in particolare la sua distruzione a causa di un incendio (doloso) nel ’91. Gli altri personaggi sono una cosa a parte, attori che recitano una parte, inconsapevolmente però. Il teatro, volutamente, non è mai citato per intero, come se si desse per scontato che c’è, esiste, vive. Il teatro che, una volta tanto, non è visto come il palco capace al massimo di suscitare qualche cenno di commozione nel pubblico lì davanti, si parla di un teatro avulso per un attimo alle forme d’arte, visto nella sua grandezza, come un’istituzione, un “monumento” come dicono gli stessi attori nell’opera. Teatro come vita vissuta, e basta. E vita vissuta in funzione del teatro, se dobbiamo considerare i vari punti di vista dei personaggi di questa pellicola corale, tutti orbitanti intorno alla struttura ma al contempo tutti così diversi tra loro, volutamente organizzati in classi di appartenenza.
Come è buona regola di Cirasola, che qui non si smentisce, è sovvertito l’ordine logico (e anche cronologico) degli avvenimenti, per sottolineare ancor più come le cose cambiano e al contempo restano le stesse o, ancora meglio, bisogna che tutto cambi perché tutto resti uguale. Personaggi compresi, i quali interpretano le stesse parti nelle varie fasi temporali, come se si volesse dimostrare il fatto che gli attori sono usati completamente ai fini della celebrazione del teatro.

Si parte dalla sua costruzione, decisa da un gruppo di notabili della città, come struttura in grado di esprimere la grandezza della stessa, designata nuova capitale. Vediamo comparire il familiare latifondo, in una scena tra le più topiche dell’opera, in cui il proprietario del fondo è restio a cederlo solo perché “proprietà  di famiglia” , neanche fosse un souvenir. La stessa scena la troveremo all’inverso e “specchiata” alla fine, in cui il padrone vende finalmente il terreno.


Poi si prosegue con le varie epoche, dagli inizi ‘900 si passa a gli anni del dopoguerra e poi agli anni contemporanei, ma le situazioni sono sempre quelle, quasi non ci stupiamo di trovare i personaggi prima in frac e poi in jeans. Non c’è niente da fare, l’uomo continuerà a fregare sempre il prossimo suo, e difatti la Puglia solitamente cantata in toni celebrativi dal regista, qui ne esce veramente male: sono evidenziati in nuce i problemi della mala sanità, dell’arricchimento sfrenato a discapito addirittura delle norme di sicurezza più elementari (“Eh! Un incendio in un teatro?”) , all’umiliazione dei più poveri, o meglio, dei lavoratori. Perché qui è la classe bene a essere presa di mira, con i suoi mille vizi, primo tra tutti è proprio il fatto di non dover mai, in nessun caso, lavorare, e anzi appunto prendersi gioco di chi lo fa per loro (“Mangia pane a tradimento!” come dice uno di loro al ragazzo che lavorava) . Facciamo un salto indietro di 500 anni: chi non si ricorda che nel nell’antichità, nel Medioevo una delle differenze sociali di base era quella che chi lavorava erano i più umili? Pare proprio che il lavoro sia una malattia, e forse non l’unico. Questi “signori” si macchiano dei vizi più turpi e perfino delitti, in nome di deliri personali. A questo proposito, ricordiamo la figura perfettamente delineata dello strozzino, che sembra uscito da un romanzo di Dickens ma è il perfetto emblema di questa classe sociale, che non si accontenta mai, arrivando a ritorcere il male su sé stessa.

Se ci era sembrato di rivedere Fellini con il riferimento circense dell’inizio, non ci siamo sbagliati più di tanto, il tutto pare non avere senso agli occhi del ragazzo, il figlio del custode con i cui occhi vediamo l’azione ed è l’unico a non “invecchiare” . Ha sì una femme fatale, ma riesce a non uscire di senno e va dritto per la sua strada. I valori, in un’ottica forse un po’ buonista, sono depositati nell’animo della gente come lui e suo padre, unico che rimane a vedere il “suo” teatro bruciare mentre tutti scappano, in un omaggio a Nuovo Cinema Paradiso.


La pellicola è un po’ claustrofobica per la mancanza pressoché totale di esterne, è tutto girato in angusti spazi, quelli creati a ad arte che rappresentano proprio il teatro, in particolare le quinte del teatro, e quindi tende, tendoni, che rendono il quadro ancora più piccolo e piena di ombre, mentre i tocchi di colore, sempre cupi, sono dati da oggetti, accenni, capi di vestiario, in particolare delle donne, che per l’appunto sembrano tutte ridicolmente uscite da un cabaret. Solo i “Buoni” , i custodi sono spesso in bianco, anzi “pulito” ; sono numerose le scene del padre che mette a letto il piccolo e gli racconta, nella migliore delle tradizioni, una storia. Ne deriva che i primi piani e quelli americani sono accentuati e particolarmente curati. Fa però molta suggestione la scena del loggione del teatro ripreso dal basso durante una serata, con un rapido movimento la camera passa al palco, quasi sottosopra. Di fatti le inquadrature più spaziose sono tutte così vertiginose. Si prova questa sensazione, come se si fosse stati tutto il tempo dietro le quinte a giocare a poker e all’uscita si avvertisse una specie di fobia alla luce, sebbene questa sia elettrica.

Se all’inizio, nelle scene “contemporanee”, le cose possono sembrare cambiare, ci accorgiamo poi, dobbiamo ammetterlo, che non è così: cambiano i mezzi, le parole, i modi, ma siamo sempre al punto di partenza, come in una labirinto da cui non si trova l’uscita. Unico modo è ricominciare sempre tutto daccapo, ripetere tutto fino a capire dov’è l’”anello che non tiene”, come diceva Montale. E qui, come dice bene proprio uno dei “signorotti”, purtroppo non conta neanche quanto sia buona una singola persona, si vive tutti insieme e si spartiscono meriti e demeriti. A uscirne male è tutta la società barese, se vogliamo quella italiana, e il film risulta quindi una critica ragionata e sottile.


-R.

lunedì 12 novembre 2012

Tra simbologia e novità pre-rinascimentali: Opus Karoli Crivelli Veneti


La Madonna della Passione è un'opera fondamentale per conoscere la prima attività del pittore, poichè è ricca di elementi donatelliani, lippeschi e squarcioneschi, appresi nella sua esperienza di bottega.
Il critico Amico Ricci la ricorda a Venezia e secondo lui quest'opera proveniva dal monastero di San Lorenzo, in seguito passò alla raccolta padovana Barbini-Baganze, poi a Verona, a Pompei ed infine a Castelvecchio.
Parlando della datazione è difficile stabilirla con precisione: si ipotizza che sia intorno al decennio 1450-60.La tecnica è naturalmente pittorica, le cui dimensioni sono 71 x 48 cm, mentre il soggetto è di sfondo religioso-allegorico.
In basso a destra c'è la firma dell'artista, scritta in latino e in lettere capitali classiche: "OPUS KAROLI CRIVELLI VENETI".
L'immagine è costituita da diversi piani prospettici: nel primo troviamo tre angeli con i misteri della passione, tra i quali spiccano la croce e la corona di spine.
Sullo stesso livello, appoggiata al davanzale marmoreo si alza una colonna dal capitello ionico. Nei suoi dintorni vi sono figure umane e sul capitello troviamo un gallo.
Al centro dello stesso piano è raffigurata un'interessante immagine sacra di Maria e Gesù, poichè risulta che le mani giunte della Madonna e il cuscino nero dove il Bambino è in piedi sono in primo piano, mentre il resto dei corpi della Vergine e del Redentore, il festone di frutta decorativo e i putti musicanti in alto in secondo livello.
Lo sfondo sotto un'architettura voltata a botte si compone del tradizionale scorcio rinascimentale, raffigurato con la tecnica del trompe-l'oeil: in quello di sinistra troviamo un muro che probabilmente separa la scena centrale da un ipotetico paradiso terrestre, poichè spuntano tra i mattoni delle erbe e dei fiori.In quello di destra è raffigurato il Golgota con le sue tre croci, una Gerusalemme curiosamente gotica percorsa da personaggi orientali, allegorici alberi secchi e l'episodio di San Pietro mentre mozza l'orecchio al soldato.
Crivelli non si limita a delinearci un semplice ritratto della Madonna con il Bambino, ma vi unisce la grande simbologia allegorica della Passione, che ci invita alla preghiera.
Il monte sul quale si ergono le tre croci è allegoricamente il Golgota, così come l'albero secco con l'avvoltoio appollaiato e il bambino che cavalca il destriero bianco.Le croci hanno senza dubbio un significato religioso, ma indicano anche la primitiva prospettiva del Crivelli.
L'albero e l'uccello sono emblemi di crudeltà e morte, mentre il bambino a cavallo simboleggia maturità e incostanza.
Grande valore allegorico è trasmesso anche dai cardellini che si annidano nel festone di frutta e dalla colonna, il tutto circondato dall'importantissimo colore, scelto tra le più calde gradazioni.
Il Crivelli ci rappresenta il famoso uccellino che evoca il sangue di Cristo versato durante il suo calvario. La leggenda ci narra infatti che questo umile animaletto si sia avvicinato a Gesù durante la via Crucis, per ripulirlo dal sangue provocatogli dalla corona di spine: il cardellino si sporcò quindi il petto, rendendolo rosso per sempre.
Il festone di frutta, invece, ci trasmette un gusto che ci sconcerta e ci affascina, grazie alla sensibilità tardogotica nel riprodurre i minimi dettagli.  Tra le preferenze naturalistiche del Crivelli troviamo i cetrioli (simboleggianti la resurrezione di Cristo o il significato negativo della perdizione e del peccato), le mele (peccato originale e redenzione di Gesù), le melagrane (fertilità ed abbondanza), uva e foglie di alloro (gloria, vittoria e sapienza).
La colonna ionica , invece, rappresenta il collegamento tra la terra e il Cielo, così come la scala dietro e le alte torri gotiche dello sfondo di destra.L'uomo vuole ascendere verso Dio, verso l'infinito e soprattutto verso la salvezza.
Da notare è anche il gallo sopra la colonna: sicuramente è da collegare alla passione e all'apostolo Pietro, ma per rimanere pertinenti alla salvezza dell'uomo, si può identificare come lo stesso calvario del Signore e alla fede dei cristinani che vogliono, come lui, risorgere nel Paradiso di Dio.
I putti musicanti in alto, sempre allegoricamente collegabili alla Passione, appartengono alle innovazoni rinascimentali ed emulano gli affreschi del Mantegna. Seppur arricchendo le sue conoscenze con le avanguardie del tempo, Crivelli rimane ancora attaccato alla tradizione medievale: da una parte troviamo la classicità delle forme e una prospettiva abbozzata e molto intuitiva, dall'altro una linea lontana dalla realtà, l'eleganza delle texture, le dimensioni non reali dei personaggi sacri e l'assolutezza senza tempo dell'oro.
Il pittore è portato alle regole fisse e alla raffinatezza del gotico internazionale, mentre per origine è indirizzato all'arte bizantina veneziana. Come accennato in precedenza, le texture che caratterizzano i panneggi dei protagonisti sono molto raffinate e virtuose, così come i marmi policromi. Entrambi rimandano inoltre all'arte orientale, di stampo arabesco. Non a caso l'artista sceglie una linea fluida e un segno evidente, andamenti curvilinei e superfici uniformi.
Il colore è ancora carico di forte simbolismo ( come il rosso, rimando alla regalità e al sacrificio, il blu e l'oro alla spiritualità e alla regalità e il nero alla morte e sconfitta del Cristo).
Per la Madonna della Passione sceglie gradazioni calde e una luce intensa proveniente da sinistra. Il volume è reso grazie al chiaroscuro, alle gradazioni cromatiche e alla prospettiva primitiva, che aiuta a definire anche lo spazio, sebbene sia per lo più simbolico.
La struttura compositiva è simmetrica speculare, comportando un equilibrio tra la parte a sinistra e a destra. L'asse di simmetria passa attraverso il vaso di fiori in alto e il corpo di Maria.
Si può dire quindi che Crivelli in questa sua prima opera abbia preferito puntare sull'aspetto religioso-simbolico, poichè la tecnica risulta lineare e prova di troppe innovazioni pittoriche.
L'opera è in toto l'allegoria della passione di Gesù, ma anche della salvazione dell'uomo. Dopo le sofferenze e la morte, Cristo risorge nella gloria di Dio e così vale anche per l'uomo, il quale dopo una vita tentata dal peccato, muore nella speranza della salvezza e poi risorge nel Signore.
                                                                                                                                                                                 -Federica

venerdì 9 novembre 2012

Friday boulevard: the best of the week

Anche questa settimana si avvia alla conclusione e, come tradizione, pubblichiamo quanto di interessante è avvenuto in questi giorni!

Da arte.it segnalo un articolo sul ritorno, dopo 50 anni, della mostra sull'arte cinetica curata da Bruno Munari mentre da ilgiornaledellarte.com un articolo sull'asta di Christie’s a New York.
Da arte.it, invece, segnalo questa mostra interessante sulla donna nella pittura italiana dell’800. Dalla Scapigliatura alla Belle Epoque che si terrà a Milano.
Per concludere, da artribune.it segnalo questo articolo sul weekend underground, a Milano, tra musica, video e poesia, dove si esibirà David Thomas, fondatore dei Pere Ubu.

Passando al mondo del cinema condivido queste due notizie che ho trovato molto interessanti: la prima riguarda Michael Arndt, sceneggiatore di Toy Story 3, che sembra lavorerà anche alla nuova trilogia di Star Wars, la seconda invece riguarda invece il carcere per il regista del controverso film anti-islam "Innocence of Muslims".

Bene, detto questo vi auguro un piacevole week-end, rinnovando l'appuntamento per lunedì prossimo con un nuovo articolo!

                                                                                                    - P.







mercoledì 7 novembre 2012

SettimArte: Nico Cirasola - Odore di pioggia


Regia: Nico Cirasola
Anno: 1989
Paese: Italia
Genere: commedia/ drammatico
Sceneggiatura: Nico Cirasola
Cast:  Renzo Arbore , Totò Onnis , Agnete Vossgard, Nico Cirasola

Dipingere i tratti di questa parte suddissima d’Italia in toni tanto epici e drammatici fa sorridere. Perché gli spunti mitici ci sono, eccome. Magari i più attenti possono aver avvertito la nota ironica già nel titolo, nella terra dove della pioggia solo odore si sente, nelle estati che paiono più africane che altro, nei campi arsi e silenziosi, nelle piazzette deserte dei paesini a mezzogiorno, nei discorsi a ritmo di litania dei vecchi come dei giovani. Ma questo lo capisce solo un pugliese e se la ride tra sé e sé, se ne ha la voglia e l’età. Eppure, strano a dirsi, la pioggia arriva sul serio, come arrivava un’incredibile neve siciliana a chiudere quella famosa novella di Verga.

Di storia vera, cronologicamente parlando, c’è poco. Si tratta di un affastellamento di immagini e scene, musica e parole, una tavolozza di colori accuratamente scelti e una certa aria d’innocenza seminale che in giro si vede ormai di rado. Protagonista è un giovane dell’entroterra barese, Totò, figlio di un capo ferroviere, e fratello di uno sfaccendato peggiore di lui, una vita persa a inseguire il sogno americano, arrivato fin troppo tardi quaggiù, dove il rock’n’roll alla Elvis sfuma nel blues e nel canto delle cicale. Armato di una mitologica moto e gel nei capelli, commette l’impudenza di innamorarsi della straniera di turno, ovviamente maritata a un militare sempre tragicamente in mimetica, fin troppo impegnato a perdere a biliardo piuttosto che portare in giro l’annoiata mogliettina, che egregiamente, dopo un lungo corteggiamento dall’aria retrò, decide di consolarsi con l’ammiratore non poi tanto segreto e scappare con lui. Da non dimenticare che il giovanotto ha velleità poetiche, fa dell’arte, sebbene si tratti del genio incompreso da tutti, famiglia, popolino, artisti di professione addirittura. Unica valvola di sfogo la trova nelle fantasie di cui ci rende partecipi, dei sogni a occhi a aperti o meno, delle fumate in compagnia. Totò si sente stretto in quel mondo, vuole evadere ma non sa come, e sogna l’America. Sogna l’Americana. Ed è curioso di come riesca alla fine, con un colpo di scena garbato e decisamente apprezzabile, a realizzare il suo piano di fuga e ad uscirne del tutto redento. Curioso perché il suo destino sembrava già segnato, una processione interminabile di mattinate iniziate con la luna storta e il rimbombo del treno nelle orecchie. Dopotutto vivere affianco a una ferrovia comporta anche questo, soprattutto se tuo padre è ferroviere e ti da’ del lazzarone perché tu non lo sarai mai.



 “Possibile che qui tra treni e persone non si possa mai dormire in pace?” , ripete Totò, alla madre che gli nasconde i suoi scritti (quale incosciente violenza!) , al padre che lo butta già dal letto per ricordargli che ormai lo aspettano solo i campi, al fratello che gli propina vestiti rubati per presentarsi alla fantomatica Sagra del Panzerotto che, nonostante la cura e l’impegno che pare dedicargli il nostro, risulterà un fiasco. Ma dove si è visto mai che in una sagra paesana con tanto di ballerine a ritmo di disco la gente si mette ad ascoltare i deliri dell’acchiappamosch? E così fa una fine da scolaretto bastonato e si ritira dal palco, con tanto di coro di fischi. Problemi suoi se si è voluto esporre così, da ingenuo qual è lo capisce al varco che l’arte non è naturalezza, non si può semplicemente buttare fuori quello che si pensa e si crede, come lui fa durante gli incontri con l’americana, una canzone cantata insieme e via, o quando si ritira da solo a scriversi versi sgangherati sulle mani. Gli dice bene il Satiro del castello “Addirittura pagano per la poesia?” , stando a significare quanto sempliciotti fossero i sogni di Totò, che pensava di sbancare mettendosi a declamare pubblicamente (notare come la famiglia sia assente alla rappresentazione) .  Decisamente combattuto, il nostro personaggio, imbevuto com’è nell’ipnosi della fantomatica radio che imperversa per tutto il film (con la voce di Vito Riviello) , ma incatenato all’ordine dai richiami dei mal assortiti genitori, che non ci sentiamo di condannare fino in fondo: sono generazioni e modi di pensare opposti, alla scontro aperto, l’uno pronto a tutto pur di “costruire” qualcosa di saldo e sicuro, l’altro per “costruire” qualcosa di cui neanche ha la certezza, una torre di Babele di idee, solo la parvenza di una vaga ispirazione.
Giustamente con l’arte non si mangia, ma Totò non si farà etichettare come buono a nulla. E lo fa attraverso l’Americana, anche lei, come la tanto attesa pioggia che non si decide a scendere dai nuvoloni che passano, è una presenza fuori luogo, una Diana che insegue farfalle avvolta in abiti stravaganti, ha quest’aria anni ’20, da mitologica femme fatale, androgina, solitaria. E’ il mondo del nord che si incontra con quello del sud, in una simbologia ingenuamente efficace: la biondina filiforme confrontata all’abbronzata signorina che aspetta il treno (e si saprà poi che è una passeggera a suo modo abituale, le abitudini in fondo sono sempre le stesse a qualunque latitudine) ; i due protagonisti che si incontrano a Castel del Monte, culla d’incontro di una dinastia germanica e una sud-italiana, dove ci appaiono moderne Sibille, il Satiro già nominato, tre bambine che ricordano le Grazie o forse le Parche; sempre i due in treno con il palleggiamento di primi piani ad angolo, volti persi nella penombra, ma perfettamente classificabili somaticamente parlando.
Paradossalmente, Totò sta meglio con lei che con i suoi simili che, raccontati per come sono, ci sembra quasi di doverli incontrare per la strada. Un azzeccatissimo e atteso Renzo Arbore nei panni di un ispirato barbiere (il rimando a Rossini è quasi scontato)  tiene una lezione improvvisata sul’importanza del ritmo nella vita, sostenendo che ci sono mestieri e mestieri e non a tutti è possibile applicare un ritmo da seguire, da intendersi come una spiegazione al male di vivere di Totò: inutile forzare l’ispirazione, non si va a cercare chissà dove né al contempo la si aspetta senza far niente. Meglio è piuttosto sapere come andarla a trovare, e affinare i mezzi, gli strumenti, i “rasoi” della propria arte. Questo è il tipo di saggezza che concilia i mondi contrapposti i genitori e figli, una saggezza senza tempo e costrizioni, che naturalmente si adatta a tempi e circostanze e resta per sempre, sebbene non si faccia facilmente reperire perché è andata a farsi un caffettino al bar.
Si intravedono intrighi e delitti di una classe dirigente stanca, ma tuttavia impettita e tronfia, totalmente avulsa dal reale, a cominciare dal marito sotto ipnosi dell’americana e per finire al nominatissimo assessore, tutti dipinti con una forte nota di macchiettismo e humour nero, che guarda caso si ritrova tutta nel saloon del barbiere, con tanto di chitarrista blues che sottolinea musicalmente la rasatura e moccioso lustrascarpe, omaggio a De Sica.
A loro contrapposti, il Jaguaro, sarebbe a dire il regista sotto le mentite spoglie del personaggio poco raccomandabile di cui il padre rimprovera la frequentazione al figlio minore, e lo zio di Totò, unica figura “materna” del film, autore di un breve “flashback nel flashback” a ricordare i tempi andati in cui si scomodavano i santi per corteggiare le ragazze.

In effetti il lavoro è tutto un ricordo (in cui, però, bisogna far fede sulla propria memoria e tener presente le prime battute del film, dacché il rimando risulta alquanto labile e lontano) , della coppia di amanti in treno che parte dopo aver consumato l’omicidio del marito (lei) e aver inscenato la tragedia (lui) . Nessun mezzo di trasporto più adatto: i treni e le ferrovie la fanno da padrone per tutta la visione, come a esprimere il desiderio d’evasione di Totò, a sottendere che in quel luogo dimenticato sono l’unico mezzo possibile, sebbene siano tratteggiati anche questi a tinte epiche, futuriste: riprese lievemente dal basso e largo uso del grandangolo, panoramiche e contrasti di colore li fanno sembrare monumenti. I campi lunghi e le panoramiche risultano a prima vista ingenue, con questi sfondi naturalistici, i campi, il cielo, solo poi ci accorgiamo di quanto siano stratificate e “spesse” , intense, queste riprese, delle cartoline  a più piani, bell’esempio di descrizione paesaggistica. Sostanzialmente la camera, visti anche luoghi e tempi dell’azione, non segue moltissimo e non si muove molto rapidamente, preferendo inquadrature alquanto plastiche, e ovviando alla cosa per mezzo del montaggio rapido, quasi a rimbalzo da un punto di vista a un altro. Al contrario, doppia importanza è data al colore, fin dalle prime battute concentrato su tra colori base: verde, bianco e rosso, difficile catalogarlo come semplice patriottismo, e altisonante oltre che retrò collegarlo all’unità nazionale. 


Il rosso in particolare. Si perde il conto delle scene in cui si annoverano particolari rossi su sfondo solitamente scuro, semplicisticamente per ravvivare la scena troppo cupa, simbolicamente per evitare la piattezza espressiva  che il luogo torpido emana, quasi un campanello sempre acceso, ma senza allarmismi. E difatti i due forse unici personaggi completamente negativi dell’opera, gli “esattori” dei debiti di Totò che gli appaiono in sogno, sono tutti e due in nero.

In senso fotografico, punto focale è la scena della fontana, nel secondo tempo: un complesso quadro con fuoco in primo piano sulle spalle della ragazza fa rientrare in secondo piano il volto di Totò incorniciato dalla ruota, sfocato. Sembra di rivedere la scena evangelica della donna samaritana. E infatti la ragazza chiede acqua, venendo paradossalmente accontentata da una pioggia torrenziale che funge da espediente narrativo, come nella migliore delle tradizioni, a far appartare in una grotta i due, novelli Enea e Didone. Ma hanno l’aria di chi la scena l’ha già vista, volutamente non c’è enfasi e la cosa non è sottolineata, facendola per contrasto risaltare maggiormente: è come se i due, capendosi al volo, avessero saputo già in anticipo dove sarebbero andati a finire, per cui la storia si consuma nell’aria squisita di un idillio prosaico, dai toni moderati e senza scandali.
Forse sono i due personaggi più sicuri, nonostante tutto, non si affannano, sebbene le loro origini siano ben diverse (e la ragazza sottolinei, quasi fuori luogo, di avere avuto un’infanzia contadina) a cercare sempre una spiegazione lampante: entrambi preferiscono ritirarsi in una sonnolenta riflessività, certi, quasi come un atto di fede, che tutto si metterà in ordine. E’ solo per questo motivo che non ci spaventa la disarmante lucidità con cui l’americana gioca alla roulette russa e uccide, difatti niente le succede.

La favola si conclude così, forse in maniera un po’sbrigativa, ma non importa, la morale qui non sta alla fine, dura tutta la visione. E quasi quasi abbiamo tutti tirato un sospiro di sollievo nel vedere i due fratelli che s’incontrano in treno, improvvisamente realizzati, come appunto in una favola. Sembra di sentirsi dire “Era destino” . Forse. O forse sono semplicemente i simboli, gli eroi di questo piccolo poema epico sudista.

-R.

lunedì 5 novembre 2012

Il trionfo della morte e la danza macabra

[Premessa: mi dispiace moltissimo per i problemi che si sono presentati nelle ultime settimane e con queste due righe vorrei chiedere scusa ai lettori e alle mie due colleghe per non aver potuto garantire un servizio puntuale come mio solito ed essere stato costretto a pubblicare questo articolo con un po' di ritardo. Purtroppo certe volte i problemi impediscono di dare il 100%, ma in fondo l'importante è rialzarsi sempre. Scusate ancora. - P.]


Buonasera... MUHAHAHAHAHAHA!!
La paura: una delle più radicate emozioni umane, fra l'altro la più viscerale e a volte anche quella più incomprensibile. Viviamo ormai in un'epoca moderna in cui molte delle minacce che avrebbero impaurito i nostri antenati non sono più così terribili come potevano sembrare millenni fa, eppure c'è sempre una paura che rimane invincibile, proprio perché fa leva sul senso di ignoto e di impotenza, sappiamo che non siamo in grado di combatterla: la morte.
Il progresso scientifico e le scoperte mediche hanno permesso di salvare molte vite, ma lei rimane invincibile e terrorizzante, ma nonostante ciò ci divertiamo a stuzzicare questa paura ancestrale, come dimostrano i vari film apocalittici sulle orde di zombie che si abbattono sugli indifesi vivi in una carneficina continua: sono un esempio i vari film della saga di Romero o quelli della serie “Il ritorno dei morti viventi”.

Scena tratta da uno dei film di George Romero
Sembra quasi che, per esorcizzare la paura della morte e dell'ignoto che si porta appresso, vogliamo dipingerla con dei toni talmente irreali ed iperbolici da spaventarci, ma al tempo stesso farci tirare un sospiro di sollievo (“al diavolo, è solo un film!” dicono quelli che escono dalla sala terrorizzati dopo la proiezione), eppure questa tematica non è così nuova come si crede (e non me ne voglia il maestro George Romero): in passato la caducità della vita era stata rappresentata in modo analogo proprio in un periodo caratterizzato dall'ansia per il cambiamento e che gli storici e i critici additano spesso come “buio”: il Medioevo.
Del resto, come non comprendere la paura che aleggiava fra gli uomini di quel tempo? Carestie, guerre e pestilenza, osteggiate da un pensiero religioso imperante che non riusciva a dare risposte reali se non alimentare ulteriormente l'inquietudine ed esaltare la speranza di una vita ultra-terrena. Da questo sostrato culturale si diffonde l'iconografia del “Trionfo della morte” e la sua variante “La danza macabra”, diffuso in varie zone europee e italiane dopo il Trecento.
Il tema alla base di questa figurazione è quello del “memento mori”, il messaggio che la vita terrena altro non è se non un momento di passaggio che proietta verso la vera vita, che è quella ultraterrena: non a caso, nelle prime rappresentazioni, gli elementi macabri si connetta al tema del “giudizio universale”, dove tutte le anime saranno giudicate ed avranno un posto fra le grazie di Dio (il Paradiso) o subiranno l'eterna dannazione (l'Inferno), la morte falcia via le anime dei vivi in una visione desolata che sembra quasi sconnessa dal tema della salvezza e del mondo celeste descritto proprio in quel periodo da Dante nella “Divina Commedia”.
Ne è un esempio il famoso “Trionfo della morte” che si trova presso l'Oratorio dei Disciplini di Clusone, in cui la morte è rappresentata come uno scheletro con una corona ed un mantello: aiutata da altri due scheletri, armati rispettivamente di una balestra e di un archibugio, stermina la popolazione senza risparmiare neanche i ricchi che, inginocchiati di fronte ad essa, le offrono doni e ricchezze per avere in cambio la salvezza, un cartiglio posto in alto avverte che la morte colpisce in modo doloroso soltanto chi offende Dio, mentre porta ad una vita migliore chi pratica la giustizia.

Trionfo della morte - Clusone
Per i latini la morte è femmina, mentre per i greci ed i tedeschi la morte è maschio: nel monastero benedettino di Subiaco, nel Lazio, si può ammirare una delle rappresentazioni più particolari della mietitrice, con i capelli lunghi e sciolti, a cavallo con la spada sguainata e che parla ciociaro, con le parole che le escono dalla bocca, come un antenato di un fumetto, la cosa ancora più curiosa è la straordinaria somiglianza fra questa rappresentazione della morte e una delle scene più famose del film “Il ritorno dei morti viventi”, dove uno zombie donna, ridotto ad uno scheletro putrescente, viene interrogato sul perché i morti si cibino del cervello dei vivi.

Rappresentazione della morte - Subiaco



I temi macabri ed ossessivi vengono ripresi anche nel celebre affresco del “Trionfo della morte” a palazzo Scalafani a Palermo, dove la morte, rappresentata come uno scheletro a cavallo, reca con sé la falce e ha appena scoccato una freccia verso un giovane, colpendolo al collo: la morte colpisce indistintamente tutti, come si evince dal cumulo di cadaveri, i poveri a sinistra sembrano chiedere alla mietitrice di colpirli per far finire le loro sofferenze, mentre i ricchi sulla destra sembrano non accorgersi di quanto stia accadendo.
Il primo aspetto che colpisce è come questa rappresentazione sia stata ripresa da un pittore successivo, molto spesso sottovalutato, il francese Henri Rousseau detto “il doganiere”: nel suo quadro “La Guerra” la donna a cavallo che regge in una mano una spada e nell'altra una torcia, cavalca sopra un cumulo di cadaveri in un paesaggio brullo, mentre dei corvi si nutrono dei resti della battaglia, la bocca aperta e l'espressione soddisfatta sembrano quasi comunicare l'urlo e la risata sonora della guerriera. Un motivo assai simile alle immagini viste finora nell'arte medievale.

Trionfo della morte (Palazzo Scalafani) - Palermo

 Henri Rousseau - "La guerra" 
L'altro aspetto che fa riflettere è come, accanto alla paura e al grottesco che l'iconografia della “danza macabra” si faccia strada una sottile vena ironica: un modo in cui i poveri possono godere del potere livellatore della morte che, con la sua falce, sottomette al suo potere tutti, compresi i ricchi, gli istruiti ed i prelati, una piccola “vendetta” per i ceti meno abbietti.
L'ironia tragica con cui viene trattata la tematica della morte si rifà al tema del “carnascialesco” che si era sviluppato già nel Duecento con “L'Inferno” dantesco o con i sonetti taglienti di Cecco Angiolieri, un macabro “can can” con cui si cerca di esorcizzare la paura della morte attraverso una risata, dando alla “triste signora” attributi umani (ella ride e beve vino alle feste).
Non è un caso, quindi, che la festa di Halloween appena celebrata (ndr: questo post sarebbe stato lo speciale di fine mese del 31 ottobre, ma per problemi di forza maggiore non sono riuscito a postarlo prima) sia quindi un rito “carnascialesco” con cui si esorcizza l'ancestrale paura dell'abisso dell'oltre-tomba. In Messico, la festa dei morti (detto in spagnolo “Día de Muertos”) è una festa gioiosa, con cibi, bevande e colori sgargianti, accostati a rappresentazioni caricaturali della morte, questo aspetto particolare della cultura messicana è rappresentato in uno dei più celebri murales del pittore muralista Diego Rivera, “Sogno di una domenica pomeriggio nell’Alameda Central”: la morte, al centro del corteo, sembra molto distante dalla rappresentazione europea, che la vede sanguinaria e bellicosa, vestita con abiti bianchi sfarzosi, più adatti ad una sposa che alla mietitrice, la morte cammina affiancata dalla popolazione e dalle autorità locali, come in una processione di paese, il senso di stranezza è aumentato dall'accostamento sgargiante dei colori che conferiscono alla scena un tono festoso, come se la morte venisse accolta con chiassosi balli e non temuta.

 Diego Rivera - “Sogno di una domenica pomeriggio nell’Alameda Central" 
Del resto, la danza macabra in versione ironica e quasi spiritosa, è stata ripresa abilmente prima da Walt Disney nel suo corto “the Skeleton Dance” del 1929, dove gli scheletri escono dalle loro tombe per danzare e suonare (memorabile come suonano le loro stesse ossa come uno xilophono) e successivamente da uno dei capolavori del gotico animato: “The Nightmare before christmas” di Tim Burton, che sembra aver recepito la lezione del trionfo della morte e della danza macabra per rileggerlo con il suo particolarissimo stile a metà fra il gotico e il naif, dove i mostri e gli scheletri ballano e cantano per festeggiare la festa di Halloween e sembrano giocare in un mondo ultraterreno.






Grazie all'ironia e al “carnascialesco”, l'uomo riesce ad esorcizzare la paura della morte ed il suo “horror vacui” e a poter vivere serenamente la vita “terrena” che tanto era malvista nel Medioevo.

                                                                                                      - P.