ANNO: 2008
PAESE: Francia, Uk
REGIA: Gerald McMorrow
SCENEGGIATURA: Gerald McMorrow
FOTOGRAFIA: Ben Davis
Che cos’è Franklyn?
Inutile stare a sbizzarrirsi, non ne ricaverete niente:
Franklyn è, sorpresa sorpresa, un nome su un campanello che suona nell’appartamento
sbagliato.
Franklyn, anno 2008, fa parte del filone di film tratti da
comic novel che…no, sbagliato.
Complice una campagna di promozione fuorviante (in calce il
trailer italiano ) , l’unica opera di Gerald McMorrow è finita per essere assimilata ai coevi V
per Vendetta e Watchmen. Non che non ci siano elementi in comune, se elemento
in comune si può considerare una maschera da teschio.
I fumi, le guglie, la cupezza, il fanatismo religioso: ecco
le caratteristiche di Città di Mezzo. Nessun riferimento tolkeniano, si tratta
solo della malaccorta traduzione di Meanwhile City, letteralmente “Città Nel
Frattempo” , il che la dice lunga: la città ci viene presentata immediatamente,
avendo l’impressione che sarà la nostra ambientazione per tutto il tempo della
pellicola. Sbagliato anche questo, visto che dopo pochi minuti pare chiaro che
il regista ci sta conducendo su un binario parallelo tra la Londra
contemporanea e quello di Meanwhile City, ed il dubbio, come diceva Borges, è:
chi sogna chi? E se sogna perché?
Altri binari corrono: sono quattro storie parallele che
apparentemente non hanno nulla da spartire, la giovane artista aspirante
suicida, il ragazzo abbandonato sull’altare, il padre che cerca il figlio
scomparso, l’ateo nella città oscura dalle mille religioni. Ognuno con una
mancanza, una perdita, che cerca di colmare in modi disperati e illusori: la
prima tenta il suicidio una volta al mese per esasperare madre e insegnanti, il
secondo tenta di sostituire alla propria famiglia distrutta una fede cieca, il
terzo va in cerca della sua amichetta d’infanzia, il quarto si professa
paladino della giustizia andando in cerca del capo di una setta, un “visionario”
(peccato che il termine possa descrivere altrettanto bene sé stesso) che ha
ucciso una bambina.
Tramite un linguaggio visivo e narrativo lento e cadenzato, flemmatico
e misurato come solo i film inglesi possono esserlo, McMorrow costruisce
lentamente il proprio puzzle. Non è un caso se quello che sembra il personaggio
onnisciente dell’opera, un addetto alle pulizie di un ospedale, sia spesso
inquadrato mentre, da solo, compone torri e strutture con piccoli oggetti e
zollette di zucchero. E, vero alter ego dello scrittore, annota tutto, anche se
il cosa rimane un mistero per lo spettatore.
A fronte della pesantezza narrativa del film, l’opera è
forte, appunto, di un intreccio notevole: come già dicevano altrove in questo
blog, la scelta da effettuarsi in fase di stesura è spesso quella sulle
priorità. Come accade tra alta letteratura e letteratura di genere, il dilemma
è tra dare importanza alla trama in sé o alla ricerca, psicologica, ideologica,
tecnica, artistica.
Franklyn fa un po’ tutto, divenendo croce e delizia dei
cinefili: onnicomprensivo, illuminato, eclettico, eppure purtroppo poco
approfondito in alcuni punti, McMorrow pare preferire dare un assaggio di tutto
e questo a ogni livello.
Partiamo dalle citazioni gothic, con le metropoli futuristiche,
al limite con lo steampunk, buie e piene di confusione come lo sono Gotham City
(Batman, 1989) , la Detroit de Il Corvo, la Los Angeles di Blade
Runner, la Londra di Arancia Meccanica, citata anche nell'inseguimento notturno e nel gusto dandy dei costumi, proseguendo con gli intrecci paradossali dal sapore fantascientifico,
sulla scia di Donnie Darko, alla composizione a matrioska, rimando a Christopher
Nolan, senza dimenticare però una traccia di giusta psicologia, un velo di
noir, un pizzico di thriller, il tutto condito dalle musiche dei Malachai, che in certi tratti rimandano, a loro volta, ai Television di Tom Verlaine.
Importante la doppia scena che vede citata La morte della
Vergine di Caravaggio, opera scandalosa all’epoca della sua presentazione, come
scandalosa è tutta l’opera di Emilia, vittima della visione in cui il quadro
prende vita davanti a lei in una corsia di ospedale.
Una formula del genere è tanto esplosiva quanto scomoda e
ciò è un peccato, perché il film regala vere chicche, in primis la pregiata
fotografia, fatta di chiaroscuri decisi, luci mirate, senza eccessi e
sbavature, tanto neutre da non fare distinguere il giorno dalla notte in alcune
inquadrature, compresse e riempite da architetture gotiche e metropolitane
nelle esterne, barocche e industriali nelle interne. A tal proposito, difficile
non notare la versatilità della macchina da presa, la sua adeguatezza in ogni
scena. Notiamo con quanta timidezza la camera si muove negli interni della
Londra dei nostri tempi, nell’atelier di Emilia, l’artista, nella casa di
Esser, il padre, di nascosto, come nella migliore tradizione dei film horror,
in cui il regista prende per qualche attimo il punto di vista del serial killer
e ci fa vedere la scena coi suoi occhi. Importante, perché vedremo che proprio
Emilia produrrà un lavoro accademico impostato proprio sul seguire e riprendere
sconosciuti. Al contempo le riprese a Meanwhile City sono aeree, immense,
vertiginose, atte a dimostrare da un lato la maestosità (riprese dall’alto,
panoramiche) , dall’altro lo straniamento (riprese dal basso, interni) .
Si tratta di un complesso gioco di molteplici doppi
personaggi e molteplici doppie versioni, il tutto reso da un montaggio
alternato da seguire rigorosamente passo passo.
“Il cantastorie era così abituato alle sue fantasie che non
importava quanto fosse bella la realtà. Non gli bastava. Non sarebbe mai bastata”
L’opera è ahimè intrisa di citazioni che amiamo definire “le
perle segnalate” , ossia i classici stilemi da film, le frasi illuminate e
profonde che risulta difficile immaginare in un contesto reale. La frase appena
citata, però, è centrale: riusciranno i nostri eroi a scardinarsi dall’amato
baco di seta delle proprie illusioni, del dolce cullarsi nel proprio mondo
fatato e prendere coscienza di ciò che avviene intorno a loro? I nostri quattro
protagonisti lo faranno, drasticamente e brutalmente, con un colpo di pistola
alla persona sbagliata, che ci fa fare un sonoro tonfo, a tutti, nel mondo
reale, a cercare di mettere insieme i fili della narrazione sotto una pioggia
torrenziale. E allora vanno al loro posto le frasi ambigue, i riferimenti, le mezze parole.
Sebbene la recitazione pecchi in alcuni punti sappia di
legno (Ryan Philippe che funziona meglio con la maschera che senza) , ma
raggiunge anche vette inaspettate (o forse no: Eva Green si riconferma degna
erede di Michelle Pfeiffer nel classico ruolo della bella psicopatica) , i
personaggi risultano alquanto verosimili, seppure con le loro storie ai limiti
del paradosso. Sembra una riconferma della massima secondo cui la realtà supera
l’immaginazione. Difatti, a fine visione, mentre abbiamo appurato e dato per
buona la “irrealtà” di Meanwhile City, risultiamo spiazzati da come le
molteplici linee riescano a incrociarsi in un unico punto, e così generare il
caos, anche solo per pochi attimi: non sappiamo infatti se i binari dei
protagonisti si divideranno di nuovo, appena dopo lo schermo nero.
Opera che, sebbene non invogli la seconda visione, va rivisto
e ri-apprezzato.
-R.
-R.