In che situazione versavano gli Stati Uniti a fine anni ’80,
dopo il periodo Reagan?
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Ronald Reagan |
C’è da dirlo, il 40° Presidente degli Stati Uniti ce l’aveva
messa tutta per risollevare le sorti del Paese, per far sperare ancora nel
sogno americano, tant’è che sostenitori e detrattori ne sono concordi; l’amministrazione
di Jimmy Carter aveva lasciato gli Usa in ginocchio, umiliati di fronte al
mondo. Con un pizzico di liberismo e spregiudicatezza, unite a un’inesauribile
vena oratoria, Reagan aveva posto come obiettivo la riduzione dell’inflazione,
del debito pubblico (giunto a livelli record con il suo predecessore) e dell’imposizione fiscale. A onor del vero, le
imposte gravavano in percentuale maggiore sui ceti più abbienti, ma questa
politica aveva dei costi che non si potevano ignorare: alla minore pressione
fiscale si accompagnò un ridimensionamento dello Stato sociale, ossia un taglio
alle politiche previdenziali ed assistenziali, a favore di un aumento delle
spese militari (c’è da ricordare che siamo ancora nel pieno della guerra
fredda) e un’ondata di liberalizzazioni. Esse, unite alla maggior capacità di
acquisto della popolazione - non più oppressa dalle tasse - fecero sì espandere
la produzione, ma portarono anche a una serie di drastiche riduzioni di costi aziendali.
Prima di tutto, quelli per il personale: cominciò a venire meno, infatti, la
correlazione tra interessi dell’azienda e interessi dell’impiegato.
Erano gli anni del passaggio da un’economia industriale a
un’economia dei servizi; le aziende cominciavano a essere quotate in borsa e ad
acquisire, se possibile, aziende più piccole e a diventare corporation, o
addirittura multinazionali.
Se è vero che in quegli anni, mediamente, un impiegato
guadagnava estremamente di più che in passato, è anche vero che niente di tutto
questo era assicurato. Gli americani avevano svenduto la sicurezza di una vita
per qualche dollaro in più.
Nel 1989, col crollo del Muro di Berlino, terminava la
guerra fredda: gli Stati Uniti sconfiggevano l’Impero del male, come Reagan amava definire l’URSS, rimanendo
l’unica superpotenza sulla piazza. Dovettero fare però i conti con una
spiacevole sorpresa: la crisi economica incalzante.
La fine della guerra fredda, prima di tutto equivalse a un
taglio dei costi delle spese militari, compresi licenziamenti di massa da parte
delle aziende legate alla produzione bellica. Ma non solo: come abbiamo visto,
il licenziamento era visto come un mezzo tutto nuovo per ridurre i costi
aziendali già negli anni addietro, ma che venne portato alle sue estreme
conseguenze in questo particolare momento, tant’è che, nella seconda metà degli
anni ’80, esso raggiunse un picco senza precedenti.
Disoccupazione, insicurezza, sgomento di fronte a una
società divenuta come mai prima d’ora dura e spietata. Questi i temi che
aleggiano nel panorama sociale e culturale degli anni a cavallo tra anni ’80 e
’90. Si tratta di un’affascinante crisi dei valori, di una contingenza a doppio
taglio, che ferisce all’esterno, ma che tempra le coscienze. E’ il paradosso
della depressione: a chi mai viene di riflettere e di porsi delle domande
quando tutto va bene?
Tutto ciò si riversa in tutti i campi della cultura e della
sottocultura. Partiamo dalla moda, ad esempio: i ruggenti anni ’80 degli yuppies e delle star del pop ci avevano
restituito coloratissime e sgargianti mise,
nei materiali e nelle fogge più bizzarre e scenografiche. Quello che si
presenta in questi anni a cavallo, come quasi sempre succede sulla soglia di
due epoche, è un meltin pot di stili:
i colori fluo iniziano a lasciare il passo al monocromatismo che dominerà poi negli
anni ’90, specie i toni del grigio, il bianco, il nero, sotto l’egida di Calvin
Klein, vera icona del periodo.
Agli eccessi degli Eighties, alle spalline
extra-size si iniziano ad abbinare capi dall’aspetto
vissuto, consumato (vero o d’effetto, non ha molta importanza) , magari sempre
di due taglie più grandi, come gli enormi blazer destrutturati da donna e i
pantaloni a vita alta, ma presi a prestito da altri ambiti o sottoculture: ed
ecco che è possibile osservare una ragazzina bionda, pettinata come se fosse
appena uscita dal letto, in un abitino floreale tutto pizzi e merletti,
abbinato a calze strappate e consumate Dr.Martens, vero
must have dell’epoca.
La pelle, meglio se nera ed eco, il jeans, la tela: si
percepisce una sorta di ritorno al naturale, senza sofisticazioni, senza
filtri, prima che si torni di nuovo agli eccessi techno di fin de siècle.
Tutto questo si riversa anche nella musica, in ogni genere:
un po’ perché è quello che vuole il pubblico, un po’ perché, come abbiamo
visto, è quello che emana lo zeitgeist,
un po’perché queste due motivazione si intersecano e si nutrono a vicenda. Ecco
perché davanti all’accezione di grunge come genere musicale, molti l’hanno
considerato perlomeno riduttivo.
Seattle, a.D. 1988: quella che probabilmente è più corretto
classificare come corrente musicale ha una data e un luogo di nascita precise.
A quanto pare però una fine vera e propria non ce l’ha, sfumando e
rimescolandosi via via con le correnti che l’hanno creata e che la seguiranno,
almeno musicalmente. Sì, perché in tal senso, a conti fatti, il grunge non
inventa e non innova un bel niente: si tratta di una genuina ripresa di classici
canoni Sessanta-Settantiani, pressoché persi negli anni a favore di innovazioni
pop, synth, arena rock e persino degli incipienti sottogeneri metal, più
sofisticati dei loro padri. La forma è la tradizione strofa-ritornello-strofa,
i complessi seguono la formazione a quattro più classica possibile, batteria-basso-chitarra.
Senza eccessi di tecnicismi, distorte, cupe, le chitarre, non meno che la voce,
che, con le loro sole forze, vanno a ovviare e a giustificare tutta una serie
di scelte di stile, prima di tutto, come dicevamo, la completa assenza di
sintetizzatori e, nella stragrande maggioranza dei casi, anche delle tastiere.
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Soundagarden |
Date quindi le basi, ognuno dei gruppi (effettivamente non
numerosissimi) ha interpretato a suo modo la corrente, chi avvicinandosi più
alle radici metal (TAD, Soundgarden, Alice in Chains) , chi a quelle punk
(Nirvana) , chi all’hard rock anni ’70 (Pearl Jam, Screaming Trees) . Il
groviglio di suoni e rumori, direttamente trasposti dal noise e dal metal,
poggiano infatti su una complessa eredità street punk e hardcore, che già aveva
fatto da piano di supporto al thrash metal, e che si fonda su un elemento
imprescindibile: la lotta sociale. Probabilmente questo è un termine anche
troppo forte per il grunge, per cui sarebbe meglio parlare di denuncia, di
ribellione: gli alfieri della nuova sottocultura sono anti-eroi, sconfitti dalla
vita, giovani complessati che in molti casi scelgono addirittura di arrendersi,
di abbandonare la partita. Non c’è redenzione né salvezza nelle liriche a
tratti urlate, a tratti sussurrate. La voce di Chris Cornell, dai Soundgarden,
ne è l’esempio più lampante, riuscendo a passare dal ruvido canto raschiato di
più diretta ispirazione hardcore/metal, a delicatezze canore degne del più
navigato Robert Plant, a cui effettivamente il timbro assomiglia molto.
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Alice in Chains |
E’ il suono di una sirena interrotta nel suo picco più acuto
dalla mano di un teppista. Non c’è da stupirsi se, infatti, molte delle vite delle
punte di diamante di questo movimento siano terminate in modo violento e in età immatura. Non c’è da stupirsi nemmeno
che i protagonisti di questo fenomeno siano, appunto, giovanissimi e trattino
di temi cari ai giovanissimi. Per citare due dei casi più eclatanti: ovviamente
l’arcinoto suicidio di Kurt Cobain, per cui evento mediatico e personalità
hanno giocato un ruolo cardine per l’avvento e per il riconoscimento di
“genere” grunge al mondo intero, operazione mai completamente giustificata
dagli adepti, ma anche la sofferta e disperata fine del leader degli Alice in
Chains, Layne Staley, volontariamente lasciatosi consumare dalla droga dopo la
morte della fidanzata dovuta alle stesse cause, di cui si dava colpa; il
cadavere fu ritrovato dopo quasi quindici giorni, certamente un’uscita di scena
molto più in sordina rispetto al notorio collega già citato.
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TAD |
Esistenzialismo, cupezza, precarietà della vita, perfino un
pizzico di edonismo, quasi fungesse da contraltare ai precedenti temi, una
certe propensione ad accarezzare aspetti macabri della vita, in una visione
però a tinte delicate, decadenti, una vena introspettiva come non se ne vedeva
da anni, vuoi per l’inconsistenza di certe correnti (come alcuni sentieri
pop-rock) , vuoi per una sorta di velato distacco dalla realtà di altre, che si
rifugiavano, al contrario, in uno spessore culturale spesso neanche tanto
indifferente: l’hard rock e alcuni sottogeneri metal, per esempio, amano
trattare di argomenti più disparati, dalla mitologia alla letteratura,
arrivando anche a temi scientifici e religiosi, tralasciando volutamente le
disquisizioni e i dilemmi interiori. Il grunge risulta essere una sorta di
purgatorio, un luogo dove la dimensione umana, lacerata in questo frangente da
mille dolori, può essere espressa e problematizzata.
Proprio in questo senso s’inserisce il filone parallelo del
riot grrrl, genere (quasi) esclusivamente al femminile e legato al tema
portante della rivincita del femminismo, non solo in senso stretto di lotta per
i diritti e delle pari opportunità, ma affermazione della coscienza e del
pensiero femminile, espresso in tutta la sua dirompente vitalità, anche e
soprattutto sessuale. Mai come in questo caso si era vista una partecipazione
così attiva e rigogliosa delle addette ai lavori, da sempre presenti, ma mai sulla
cresta dell’onda come in questo momento, né con una così precisa identità
musicale. Col grunge, di cui è sorella, condivide infatti la culla e gli
intenti, oltre che le modalità espressive, sebbene, in molti casi, le riot
grrrl risultino molto più legate a sonorità e schemi punk, più specificatamente
hardcore.
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Babes in Toyland |
Probabilmente queste ragazze scanzonate e arrabbiate sono
servite per fare da contrappeso alla vena di mesta solitudine che percepiamo
nel grunge tout court che, come dicevamo, si tinge di tinte fosche in virtù
dello spirito dei tempi, buio e cupo. Sebbene sappiamo che una speranza ci sarà
sempre, in questo momento facciamo difficoltà a credervi. E’ una tensione al
pessimismo cosmico, a tratti autocelebrativo, che si riverbera anche nelle
atmosfere, profondamente dark, su cui si impernia buona parte della produzione
artistica, a tutti i livelli, del periodo.
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Il Corvo |
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Singles |
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Batman |
E’ un aspetto che si può notare a cominciare dall’arte
cinematografica, con l’ampio uso, da un lato, di scenografie e atmosfere
gotiche, come succede in due opere rappresentative del momento
, Il Corvo, di Alex Proyas, e
Dracula di Bram Stoker, di Francis Ford
Coppola, oltre che nelle prime prove dietro la macchina da presa di Tim Burton,
ad esempio i due capitoli dedicati a
Batman;
ambientazioni ai limiti della distopia, o quantomeno dell’irreale, quasi
volessero celebrare una fuga dalla realtà, che effettivamente ci appare cupa,
con metropoli buie, strade pericolose popolate di malviventi, o, come succede
in
Edward di forbice, di Burton, con
un irreale cittadina coloratissima e finta, neanche fosse fatta di plastica e
cartone, contrapposta alla tetra magione del protagonista, come a voler
dimostrare che ciò che sembra bello, luminoso e sicuro non è veritiero, né
credibile; dall’altro lato, assistiamo a un fiorire di pellicole di genere
drammatico, o anche commedie, di stampo estremamente realistico, quasi scorci
di una società particolare: andiamo dall’epopea di un odierno, folle Ulisse,
interpretato da Micheal Douglas in
Un
giorno di ordinaria follia, di Joel Schumacher (in cui è interessante come
venga resa la particolare, critica situazione sociale di un’altra città, Los Angelese) che, stressato dai mali che gli
si riversano sul suo capo, decide, di punto in bianco, di farsi giustizia da
solo, alla celebrazione più autentica e spensierata dello spirito grunge nella
pellicola
Singles, di Cameron Crowe.
Qui i personaggi, tra cui compaiono anche esponenti della scena musicale del
periodo, sono tutte sfaccettature di una comune gioventù della città di
Seattle: sono tutte persone molto giovani, sappiamo, ma con tutta l’apparenza e
i modi di fare di adulti che combattono per ritagliarsi un posto nel mondo.
Viene rappresentata in maniera molto incisiva la crisi anche sentimentale del
periodo, il sentirsi sempre e comunque combattuti, divisi. Sferzante come venga
resa l’eclissi del musicista sciupafemmine, immagine che non si addice ai
cultori del grunge: le
groupie, viene
suggerito in maniera velata, oramai hanno fatto il loro tempo.
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Edward mani di forbice |
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Il Corvo (fumetto) |
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Sandman |
Non vanno dimenticati, in questo particolare momento, anche
esempi di arte visiva, specie i fumetti: Il
corvo, di James O’Barr, pubblicato a partire dall’88, che condivide con il
film l’atmosfera pesante e i temi duri: la morte, la violenza, la vendetta, il
senso di smarrimento. Parimenti, anche Sandman,
di Neil Gaiman, è un esempio notevole dello spirito del tempo, sebbene di
impronta più marcatamente onirica e surreale. Gli spunti al reale comunque non
mancano: il tetro protagonista, Dream o Sandman, che dir si voglia, si trova
spesso a intervenire in situazioni particolari, in questo nostro mondo:
omicidi, rapimenti, furti, crisi, casi di follia, in cui, nonostante sia un
essere soprannaturale, si trova perennemente invischiato.
Per concludere, è interessante notare come il medesimo
sentire dell’epoca si riverberi in tutte le forme culturali, anche musicali, quindi
esattamente parallele al grunge in senso stretto, in un’univoca espressione
dell’ansia, del sentirsi sospesi in un limbo, nel limitare angoscioso che fa da
cerniera tra due epoche. E’ una dimensione che, nonostante sia da sempre
sentita ed espressa dall’uomo, ha
trovato una completezza espressiva senza precedenti e che non è
possibile né ignorare, né dimenticare.
-R.I.