Questi giorni più che mai siamo circondati da teschi,
scheletri, spettri e quant’altro in occasione di Halloween, la festa macabra
per eccellenza.
Vanitas |
Al di là di questi simboli che compaiono puntualmente ogni 31 ottobre, vi siete
mai chiesti qual è il vero senso del teschio e come mai fa così tanta paura?
In questa pagina di critica non starò a ribadire la storia di Halloween e le sue radici celtiche, piuttosto ho scelto di presentarvi il tema della vanitas.
In pittura si rappresenta come una natura morta, ben lontana dalla tradizionale: al posto della frutta e degli ortaggi troviamo teschi e candele, clessidre, putti e fiori dal gambo spezzato (generalmente tulipani e rose).
Tutti i precedenti esempi (ognuno con un’accezione diversa) alludono alla caducità della vita, alla sua effimera essenza e alla sua breve durata. Non a caso il motto “vanitas vanitatum et omnia vanitas” viene ripreso dalla Bibbia.
Anche se con numerose somiglianze al memento mori, la vanitas ha avuto il suo periodo di splendore nel 1600: epoca in cui la Chiesa stava cercando di riformarsi dal suo interno per ripulirsi dagli scandali, epoca in cui si sviluppa l’arte barocca, epoca in cui a causa delle epidemie e delle pesti portate dalle numerose guerre (come quella dei trent’anni) si sviluppò un profondo senso di precarietà.
Ecco quindi nascere un nuovo genere che si allontana molto dall’iconografia
classica: un genere che si preoccupa di ricordare a noi poveri mortali che le
cose terrene sono destinate a terminare, così come il fiore (rappresentante la
spensierata giovinezza) è destinato a sfiorire e ad appassirsi. Con la vanitas,
l’artista ci sollecita a dare il giusto peso agli oggetti che ci circondano,
senza però negare o denigrare la filosofia del carpe diem, ossia quella
del cogliere l’attimo. Proprio per
l’effimera e breve esperienza della vita dobbiamo godere di ciò che abbiamo e
sfruttarlo al meglio secondo le nostre esigenze e capacità. Tra le più importanti
(e significative) vanitas ricordiamo quella di Harmen Steenwijck, risalente al 1640,
quella del (più precisamente Et
in arcadia ego) realizzata tra il 1618 e il 1622 e un’ Allegoria della vanità dell’artista spagnolo Antonio de Pereda y
Salgado (facendo particolare attenzione a come sia piena e ricca di
particolari, tipico esempio di arte barocca spagnola).
Di seguito vi porto uno dei primi esempi
di vanitas che abbiamo in Italia, o meglio di memento mori ad opera di Masaccio: la Trinità che dipinse tra il 1426-28 nella basilica di Santa Maria
Novella a Firenze (che vale veramente la pena vedere!!).
In questa pagina di critica non starò a ribadire la storia di Halloween e le sue radici celtiche, piuttosto ho scelto di presentarvi il tema della vanitas.
In pittura si rappresenta come una natura morta, ben lontana dalla tradizionale: al posto della frutta e degli ortaggi troviamo teschi e candele, clessidre, putti e fiori dal gambo spezzato (generalmente tulipani e rose).
Tutti i precedenti esempi (ognuno con un’accezione diversa) alludono alla caducità della vita, alla sua effimera essenza e alla sua breve durata. Non a caso il motto “vanitas vanitatum et omnia vanitas” viene ripreso dalla Bibbia.
Anche se con numerose somiglianze al memento mori, la vanitas ha avuto il suo periodo di splendore nel 1600: epoca in cui la Chiesa stava cercando di riformarsi dal suo interno per ripulirsi dagli scandali, epoca in cui si sviluppa l’arte barocca, epoca in cui a causa delle epidemie e delle pesti portate dalle numerose guerre (come quella dei trent’anni) si sviluppò un profondo senso di precarietà.
Et in arcadia Ego |
Allegoria della Vanità |
Bando dunque alle ciance e alle fantasticherie sugli spettri: sono sicura che stupirete i vostri ospiti raccontando questa breve storia della vanitas, unendo il dilettevole della festa all’utile della cultura e della riflessione ( che di questi tempi non fa mai male! =) )
Memento Mori |
-Federica
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