ANNO: 2000
PAESE: USA
REGIA: Sofia Coppola
SCENEGGIATURA: Gerard McMorrow
SCENEGGIATURA: Gerard McMorrow
Sofia Coppola nasce registicamente inizia nel 2000, con Il
giardino delle vergini suicide. La carriera della figlia d’arte di Francis Ford
seguirà poi un percorso di alti e bassi, punteggiato a tratti di grandi
successi (Lost in translation, Somewhere) , e infelici trasposizioni storiche
(Marie Antoniette) .
Per il suo primo lungometraggio, Coppola ha voluto fondarsi
su un’opera letteraria, e di spessore non indifferente. Parliamo del romanzo
omonimo dell’autore di origine greca Jeffrey Eugenides, che condivide con la
regista l’amore per l’introspezione psicologica, in particolare quella
femminile.
Non è facile immedesimarsi così tanto nell’altro sesso,
d’altro canto Eugenides dimostrerà il suo spirito critico tratteggiando,
successivamente, la storia di un ermafrodito, tanto per chiarire il suo punto
di vista in merito. Coppola non ha mai fatto segreto della sua volontà di
scandagliare le profondità dell’animo femminile, e questo non solo per fornire
un punto d’appoggio a invettive femministe o mascherare sterili storielle
romantiche.
Ispirato a una storia vera (o, con ogni probabilità, a più
storie vere) , le due opere narrano della segregazione di un gruppo di cinque
sorelle, tutte bionde e bellissime, da parte dei genitori nella Detroit
dell’inizio degli anni ’70, gli anni dell’hard rock, della controcultura,
quelli conseguenti all’epoca hippie e delle rivendicazioni femminili.
In casa Lisbon, tutto questo non esiste. La casa appare
stracolma invece di statuine di santi e madonne e i dischi rock sono banditi e
bruciati. Appare subito chiaro che non è un semplice caso di eccesso di
protezione genitoriale, ma di una madre che si rifiuta di vedere non una, ma
cinque figlie emanciparsi, o anche solo crescere, anteponendo un egoismo e una
prepotenza esagerati a un processo tutto naturale.
Perfino le cinque ragazze sono talmente immerse
nell’atmosfera claustrofobica e misantropa della famiglia che appaiono docili,
anzi, sembrano quasi appoggiare ciò che la madre fa. Solo qualche frase
sussurrata trapela, e questo avviene quando la situazione è ormai degenerata a
livelli da paranoia : “Non possiamo nemmeno respirare!” sentiamo sussurrare da
Lux, la furbetta del gruppo.
C’è da dire che il punto di vista delle eteree ragazze è
reso in termini piuttosto enigmatici: il film, come il romanzo, è una sorta di
dossier, realizzato da un gruppo di compagni di scuola delle Lisbon, colpiti
dalle ragazze e decisi, forse, a liberarle. Parliamo di ragazzi compresi tra i
15 e i 17 anni, quindi è facilmente
intuibile quanto sia limitata la portata d’azione, anche se questi giovani
innamorati ce la mettono davvero tutta per riuscire nel loro intento. Le
ragazze, quindi, viste con i loro occhi, appaiono sorridenti, silenziose e
“alienate” , tanto da far sospettare che la situazione familiare le abbia
traviate e sottomesse, o che addirittura non avvertano nessun problema. Si
possono contare decine di scene in cui le giovani vengono ritratte in gruppo,
senza scambiarsi una parola. E’ il sintomo di un’America che non è ancora
completamente cambiata, una provincia ancora legata a vecchi sistemi,
intorpidita e annoiata, tutta compresa nel proprio autocompiacimento religioso,
tanto da schiacciare completamente l’individualità.
L’opera cinematografica risulta quindi uno strano quadro
corale, in cui un gruppo ne descrive e racconta un altro.
La prima a cedere è la più piccola, che vede nelle sorelle
maggiori i propri anni futuri. Ognuna delle ragazze è distinguibile solo per
alcune particolarità, che per la verità appaiono evidenti solo per i ragazzi
innamorati, in una sorta di feticismo sentimentale: quello di Cecilia è un
vecchio e sporco abito da sposa, l’unica cosa che indossa, un po’ come Remedios,
la bellezza presentata in Cent’anni di solitudine, che vive in maniera del
tutto inusitata e bizzarra, come bizzarra risulterà essere la sua storia e la
sua “fine” .
Sarebbe un po’ strano definire bizzarra anche la fine di
Cecilia, se si può liquidare con “strano” il suicidio di una tredicenne. Il
comportamento della bambina, piuttosto, sa tanto di martire, da quando la
vediamo galleggiare nella vasca colma di sangue, al suo primo tentativo di
suicidio, a quando reagisce alla vista di un ragazzo down invitato alla sua
patetica festa di compleanno, e si avvia lungo le scale come se fosse il Golgota,
un breve calvario.
Non è facile spiegare le ragioni di un gesto estremo quale
il suicidio e non è nemmeno corretto. Senza avventurarsi in giustificazioni
formali e spirituali, ognuno, come dice Eugenides, può arrivare a rivendicare
il diritto di assurgere a Dio della propria vita, e le ragioni spesso poco
importano.
La visione di casa Lisbon svuotata, quella casa che abbiamo
conosciuto in ogni suo angolo, in ogni momento dell’anno, di cui abbiamo
scansato i panni sporchi sparsi per casa e gli spuntini smozzicati abbandonati sulle
scale dalle ragazze, è significativa: compreso il fallimento, tutto è messo in
vendita, anche le cianfrusaglie da due soldi. Tutto quello per cui si era
lottato fino a un minuto prima, improvvisamente non ha più valore.
Curiosamente, nessuno o quasi si cura della reazione dei
genitori alla morte di cinque figlie, ed è anzi tratteggiato in via del tutto
superficiale: il padre (professore) che appare ancora più confuso e distratto
di quanto non fosse, la madre che si giustifica con la solita scusa “volevo
solo che fossero felici” . Mentre nel film questa donna ha le sembianze
mirabili di Kathleen Turner, gigante del cinema americano, nel romanzo essa
appare una figura quasi di secondo piano, mai approfondita, quasi come se i
ragazzi che narrano la storia ne fossero spaventati.
Assurdo come una tragedia di tali proporzioni sia notata via
via che ci si allontana dal portico di casa Lisbon: le ragazze sono totalmente
imperturbabili, in casa si avverte solo un velo di tensione, le vicine sparlano
e il notiziario locale manda la propria giornalista ad analizzare la vicenda.
Il divario è tanto che sembra che solo quest’ultima sembra percepire il
malessere, la disperazione che aleggia nella casa.
La potente fotografia è funzionale alla causa, foriera di
significati: mirabile l’uso del viraggio, dall’azzurrino dell’alba tragica in
cui si sveglia Lux, sedotta e abbandonata su un campo da baseball, proprio lì
dove credeva che facendo “il grande passo” sarebbe cresciuta risolvendo la
situazione, al verde torbido della festa in maschera finale, laddove vengono
celebrati i futuri successi di una ragazza più fortunata delle cinque
protagoniste, una festa dove tutta la tragica vicenda appare già opportunamente
dimenticata, ma, nonostante quella dei fumi tossici e delle maschere antigas sia
una farsa, appare chiaro che è ben più di un semplice sollazzo: impossibile non
pensare alla frase esclamata da Lux “non possiamo nemmeno respirare!” , è il
mondo tentacolare degli adulti che si rifiuta di lasciar vivere quello dei
propri figli, in un assurdo gioco autolesionistico e inconsapevolmente crudele
e controproducente. A che pro fare figli se non si è capaci di farli crescere?
Registicamente, Coppola condensa il breve romanzo in una
novantina scarsa di minuti, ma la trasposizione è perfetta. Utilizzando riprese
fisse, come se fossero quadri, spesso anche silenziose, ne risulta una
immediatezza notevole e onnicomprensiva, tant’è che poche cose sono state
tralasciate rispetto al romanzo. Per dirla in breve, alla Coppola basta
un’immagine, uno sguardo, per rendere una particolare situazione, o una
particolare emozione.
La colonna sonora, poi, è ovviamente ispirata dal periodo
storico: accanto a pezzi di rock duro, come dicevamo, appaiono brani pop e
country dal sapore leggero e adolescenziale, quasi una cerniera tra due epoche,
tra due modi di vivere, un po’ come risulta essere il biondo quintetto.
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