giovedì 11 aprile 2013

SettimArte: Sofia Coppola - Il giardino delle vergini suicide



ANNO: 2000
PAESE: USA
REGIA: Sofia Coppola
SCENEGGIATURA: Gerard McMorrow
FOTOGRAFIA: Edward Lachman



Sofia Coppola nasce registicamente inizia nel 2000, con Il giardino delle vergini suicide. La carriera della figlia d’arte di Francis Ford seguirà poi un percorso di alti e bassi, punteggiato a tratti di grandi successi (Lost in translation, Somewhere) , e infelici trasposizioni storiche (Marie Antoniette) .
Per il suo primo lungometraggio, Coppola ha voluto fondarsi su un’opera letteraria, e di spessore non indifferente. Parliamo del romanzo omonimo dell’autore di origine greca Jeffrey Eugenides, che condivide con la regista l’amore per l’introspezione psicologica, in particolare quella femminile.
Non è facile immedesimarsi così tanto nell’altro sesso, d’altro canto Eugenides dimostrerà il suo spirito critico tratteggiando, successivamente, la storia di un ermafrodito, tanto per chiarire il suo punto di vista in merito. Coppola non ha mai fatto segreto della sua volontà di scandagliare le profondità dell’animo femminile, e questo non solo per fornire un punto d’appoggio a invettive femministe o mascherare sterili storielle romantiche.

Ispirato a una storia vera (o, con ogni probabilità, a più storie vere) , le due opere narrano della segregazione di un gruppo di cinque sorelle, tutte bionde e bellissime, da parte dei genitori nella Detroit dell’inizio degli anni ’70, gli anni dell’hard rock, della controcultura, quelli conseguenti all’epoca hippie e delle rivendicazioni femminili.
In casa Lisbon, tutto questo non esiste. La casa appare stracolma invece di statuine di santi e madonne e i dischi rock sono banditi e bruciati. Appare subito chiaro che non è un semplice caso di eccesso di protezione genitoriale, ma di una madre che si rifiuta di vedere non una, ma cinque figlie emanciparsi, o anche solo crescere, anteponendo un egoismo e una prepotenza esagerati a un processo tutto naturale.

Perfino le cinque ragazze sono talmente immerse nell’atmosfera claustrofobica e misantropa della famiglia che appaiono docili, anzi, sembrano quasi appoggiare ciò che la madre fa. Solo qualche frase sussurrata trapela, e questo avviene quando la situazione è ormai degenerata a livelli da paranoia : “Non possiamo nemmeno respirare!” sentiamo sussurrare da Lux, la furbetta del gruppo.
C’è da dire che il punto di vista delle eteree ragazze è reso in termini piuttosto enigmatici: il film, come il romanzo, è una sorta di dossier, realizzato da un gruppo di compagni di scuola delle Lisbon, colpiti dalle ragazze e decisi, forse, a liberarle. Parliamo di ragazzi compresi tra i 15 e  i 17 anni, quindi è facilmente intuibile quanto sia limitata la portata d’azione, anche se questi giovani innamorati ce la mettono davvero tutta per riuscire nel loro intento. Le ragazze, quindi, viste con i loro occhi, appaiono sorridenti, silenziose e “alienate” , tanto da far sospettare che la situazione familiare le abbia traviate e sottomesse, o che addirittura non avvertano nessun problema. Si possono contare decine di scene in cui le giovani vengono ritratte in gruppo, senza scambiarsi una parola. E’ il sintomo di un’America che non è ancora completamente cambiata, una provincia ancora legata a vecchi sistemi, intorpidita e annoiata, tutta compresa nel proprio autocompiacimento religioso, tanto da schiacciare completamente l’individualità.
L’opera cinematografica risulta quindi uno strano quadro corale, in cui un gruppo ne descrive e racconta un altro.

Nel film è assente la figura di Karafillis, la vicina di casa greca, non a caso come l’autore del romanzo, che istruisce le ragazze in un senso tutto nuovo, avvicinandole a dottrine mai sentite, somministrate in maniera spicciola ma del tutto efficace, tanto che, quando la vecchia signora enuncia “la vita è una perdita di tempo” , ecco scattare qualcosa. Quelle ragazze che erano apparse del tutto influenzabili, leggere, allegre quanto possono esserlo delle teenager, capiscono e arrivano a soluzioni estreme.





La prima a cedere è la più piccola, che vede nelle sorelle maggiori i propri anni futuri. Ognuna delle ragazze è distinguibile solo per alcune particolarità, che per la verità appaiono evidenti solo per i ragazzi innamorati, in una sorta di feticismo sentimentale: quello di Cecilia è un vecchio e sporco abito da sposa, l’unica cosa che indossa, un po’ come Remedios, la bellezza presentata in Cent’anni di solitudine, che vive in maniera del tutto inusitata e bizzarra, come bizzarra risulterà essere la sua storia e la sua “fine” .

Sarebbe un po’ strano definire bizzarra anche la fine di Cecilia, se si può liquidare con “strano” il suicidio di una tredicenne. Il comportamento della bambina, piuttosto, sa tanto di martire, da quando la vediamo galleggiare nella vasca colma di sangue, al suo primo tentativo di suicidio, a quando reagisce alla vista di un ragazzo down invitato alla sua patetica festa di compleanno, e si avvia lungo le scale come se fosse il Golgota, un breve calvario.

Non è facile spiegare le ragioni di un gesto estremo quale il suicidio e non è nemmeno corretto. Senza avventurarsi in giustificazioni formali e spirituali, ognuno, come dice Eugenides, può arrivare a rivendicare il diritto di assurgere a Dio della propria vita, e le ragioni spesso poco importano.
La visione di casa Lisbon svuotata, quella casa che abbiamo conosciuto in ogni suo angolo, in ogni momento dell’anno, di cui abbiamo scansato i panni sporchi sparsi per casa e gli spuntini smozzicati abbandonati sulle scale dalle ragazze, è significativa: compreso il fallimento, tutto è messo in vendita, anche le cianfrusaglie da due soldi. Tutto quello per cui si era lottato fino a un minuto prima, improvvisamente non ha più valore.
Curiosamente, nessuno o quasi si cura della reazione dei genitori alla morte di cinque figlie, ed è anzi tratteggiato in via del tutto superficiale: il padre (professore) che appare ancora più confuso e distratto di quanto non fosse, la madre che si giustifica con la solita scusa “volevo solo che fossero felici” . Mentre nel film questa donna ha le sembianze mirabili di Kathleen Turner, gigante del cinema americano, nel romanzo essa appare una figura quasi di secondo piano, mai approfondita, quasi come se i ragazzi che narrano la storia ne fossero spaventati.
Assurdo come una tragedia di tali proporzioni sia notata via via che ci si allontana dal portico di casa Lisbon: le ragazze sono totalmente imperturbabili, in casa si avverte solo un velo di tensione, le vicine sparlano e il notiziario locale manda la propria giornalista ad analizzare la vicenda. Il divario è tanto che sembra che solo quest’ultima sembra percepire il malessere, la disperazione che aleggia nella casa.

La potente fotografia è funzionale alla causa, foriera di significati: mirabile l’uso del viraggio, dall’azzurrino dell’alba tragica in cui si sveglia Lux, sedotta e abbandonata su un campo da baseball, proprio lì dove credeva che facendo “il grande passo” sarebbe cresciuta risolvendo la situazione, al verde torbido della festa in maschera finale, laddove vengono celebrati i futuri successi di una ragazza più fortunata delle cinque protagoniste, una festa dove tutta la tragica vicenda appare già opportunamente dimenticata, ma, nonostante quella dei fumi tossici e delle maschere antigas sia una farsa, appare chiaro che è ben più di un semplice sollazzo: impossibile non pensare alla frase esclamata da Lux “non possiamo nemmeno respirare!” , è il mondo tentacolare degli adulti che si rifiuta di lasciar vivere quello dei propri figli, in un assurdo gioco autolesionistico e inconsapevolmente crudele e controproducente. A che pro fare figli se non si è capaci di farli crescere?

Registicamente, Coppola condensa il breve romanzo in una novantina scarsa di minuti, ma la trasposizione è perfetta. Utilizzando riprese fisse, come se fossero quadri, spesso anche silenziose, ne risulta una immediatezza notevole e onnicomprensiva, tant’è che poche cose sono state tralasciate rispetto al romanzo. Per dirla in breve, alla Coppola basta un’immagine, uno sguardo, per rendere una particolare situazione, o una particolare emozione.
La colonna sonora, poi, è ovviamente ispirata dal periodo storico: accanto a pezzi di rock duro, come dicevamo, appaiono brani pop e country dal sapore leggero e adolescenziale, quasi una cerniera tra due epoche, tra due modi di vivere, un po’ come risulta essere il biondo quintetto.


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