Aprile dolce dormire, si è soliti
dire: visto e considerato, però, il poco tempo che ho avuto
ultimamente potrei tranquillamente smentire questo proverbio; prima
sono stato alle prese con un esame e subito dopo sono partito per
Roma con l’università, ed ho avuto davvero poco tempo per dormire!
Però, da bravo aspirante critico d’arte, ho colto l’occasione al
volo per conciliare una breve permanenza nella “caput mundi” con
la mia passione e per approfondire un tema interessanti come quello
degli archivi di architettura.
Chi, come me, frequenta una facoltà di
ambito architettonico è abituato, già dal primo anno, a
confrontarsi con i più grandi maestri dell’architettura moderna da
Nervi a Rossi, da Renzo Piano a Alvar Aalto e rimane ogni volta
meravigliato di come nascano i loro progetti e di come queste
sculture urbane si inseriscano nella città tanto da diventare un
simbolo distintivo. Ma accanto allo studio dei maestri c’è un
altro elemento con cui gli studenti devono fare i conti, un nemico
subdolo e nascosto, ma capace di alcune tremende pugnalate alle
spalle e responsabile di notti insonni: AutoCAD (in ogni sua
incarnazione). Al di là della facile ironia, la visita agli archivi
(prima a quello del settore architettura del museo Maxxi e
successivamente all’archivio centrale di stato) mi ha aperto gli
occhi su un tema che, ultimamente, viene molto sottovalutato: il
disegno. I maestri che studiamo non disponevano per loro sfortuna (o
per loro fortuna) del computer, quindi ,oltre a non perdere tempo su
facebook, il loro genio creativo era frutto del disegno a mano, tutti
i loro progetti dal più semplice fino al più titanico era il
risultato di uno schizzo su carta che piano piano prendeva forma,
come gli antichi maestri della pittura preparavano con pazienza gli
studi per i loro affreschi.
Architetti come Carlo Scarpa, Pierluigi
Nervi o Aldo Rossi disegnavano le loro intuizioni architettoniche, e
proprio da quello schizzo febbrile e pulsante nasceva l’architettura,
come un qualcosa di vivo che cresceva fino a trasformarsi in un
progetto vero. La matita e gli strumenti del disegno erano quasi un
prolungamento naturale della mano, e nonostante gli infiniti studi e
le svariate ipotesi che venivano fatte prima di arrivare al tanto
agognato “progetto definitivo” il disegno a mano rendeva
l’architettura più simile ad una vera opera d’arte. Spesso i
professori delle facoltà di architettura sono soliti ammonire i loro
studenti, ricordando loro che la triade vitruviana non comprende la
solo parvenza estetica ma anche la “firmitas” e la “utilitas”,
tanto che spesso viene detto che l’architettura non è arte: eppure
i disegni conservati negli archivi visitati sembravano dire proprio
il contrario, l’architetto era quasi un artigiano che faceva
nascere un progetto dalla sua sensibilità e la carta era il supporto
dove le idee prendevano vita, la vera magia dell’architettura era
vedere come dalla carta e dal disegno sorgevano poi progetti
magnifici. Oggi con il computer da un lato è tutto più semplice, ma
dall’altro si è persa proprio questa spontaneità, questo spirito
creativo da artigiano: di sicuro avere uno strumento capace di
aiutare il progettista nel creare forme che sarebbero altrimenti
impossibili da disegnare a mano libera può rappresentare un qualcosa
di innovativo (si veda, ad esempio l’architettura di Frank Ghery)
ma a risentirne è proprio la genesi del progetto e la sua evoluzione
e a risentirne è anche il delicato rapporto che si viene a creare
fra l’uomo e l’architettura, esempio tangibile di questo è stato
il confronto fra il Maxxi di Zaha Hadid e il quartiere dell’ Eur
progettato durante la dittatura di Mussolini. Nonostante l’aspetto
megalitico e titanico delle costruzioni dell’Eur si aveva
l’impressioni di trovarsi di fronte ad un sublime quasi Kantiano,
capace di affascinare proprio perché fa sentire piccolo l’uomo, al
contrario nel Maxxi ho avuto un’impressione quasi di freddezza, di
distanza che rendeva la struttura quasi inaccogliente.
A rendere più
affascinante i progetti nati dal disegno non è solo la loro (a
volte) utopia, ma anche lo studio ed il sacrificio tangibile, i fogli
di carta erano quasi impregnati delle fatiche del loro progettista;
ma c’è anche un’altra cosa che mi ha colpito particolarmente e
che si discosta dalla semplice filosofia progettuale: il tema della
memoria.
Ho sempre creduto che, realizzando una
costruzione, si lasci un segno tangibile della propria esistenza,
così i progetti preliminari su carta che hanno portato alla
realizzazione sono testimonianza di un modo di operare, di uno stile
che ogni progettista aveva, il digitale annulla tutto questo: i bit
sebbene infinitamente replicabili sono in balia dell’evoluzione
tecnologica, un formato che oggi si usa largamente potrebbe diventare
obsoleto in meno di quindici anni, i progetti digitali sono molto più
semplici da perdere (a chi non è mai sparito un documento sul pc?) e
soprattutto, non possono minimamente vantare l’artisticità di
quegli schizzi e lavitalità che nascondono.
- P.
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