mercoledì 24 aprile 2013

Reportage: un viaggio a Roma fra gli archivi dell’architettura

Aprile dolce dormire, si è soliti dire: visto e considerato, però, il poco tempo che ho avuto ultimamente potrei tranquillamente smentire questo proverbio; prima sono stato alle prese con un esame e subito dopo sono partito per Roma con l’università, ed ho avuto davvero poco tempo per dormire! Però, da bravo aspirante critico d’arte, ho colto l’occasione al volo per conciliare una breve permanenza nella “caput mundi” con la mia passione e per approfondire un tema interessanti come quello degli archivi di architettura.
Chi, come me, frequenta una facoltà di ambito architettonico è abituato, già dal primo anno, a confrontarsi con i più grandi maestri dell’architettura moderna da Nervi a Rossi, da Renzo Piano a Alvar Aalto e rimane ogni volta meravigliato di come nascano i loro progetti e di come queste sculture urbane si inseriscano nella città tanto da diventare un simbolo distintivo. Ma accanto allo studio dei maestri c’è un altro elemento con cui gli studenti devono fare i conti, un nemico subdolo e nascosto, ma capace di alcune tremende pugnalate alle spalle e responsabile di notti insonni: AutoCAD (in ogni sua incarnazione). Al di là della facile ironia, la visita agli archivi (prima a quello del settore architettura del museo Maxxi e successivamente all’archivio centrale di stato) mi ha aperto gli occhi su un tema che, ultimamente, viene molto sottovalutato: il disegno. I maestri che studiamo non disponevano per loro sfortuna (o per loro fortuna) del computer, quindi ,oltre a non perdere tempo su facebook, il loro genio creativo era frutto del disegno a mano, tutti i loro progetti dal più semplice fino al più titanico era il risultato di uno schizzo su carta che piano piano prendeva forma, come gli antichi maestri della pittura preparavano con pazienza gli studi per i loro affreschi.


Architetti come Carlo Scarpa, Pierluigi Nervi o Aldo Rossi disegnavano le loro intuizioni architettoniche, e proprio da quello schizzo febbrile e pulsante nasceva l’architettura, come un qualcosa di vivo che cresceva fino a trasformarsi in un progetto vero. La matita e gli strumenti del disegno erano quasi un prolungamento naturale della mano, e nonostante gli infiniti studi e le svariate ipotesi che venivano fatte prima di arrivare al tanto agognato “progetto definitivo” il disegno a mano rendeva l’architettura più simile ad una vera opera d’arte. Spesso i professori delle facoltà di architettura sono soliti ammonire i loro studenti, ricordando loro che la triade vitruviana non comprende la solo parvenza estetica ma anche la “firmitas” e la “utilitas”, tanto che spesso viene detto che l’architettura non è arte: eppure i disegni conservati negli archivi visitati sembravano dire proprio il contrario, l’architetto era quasi un artigiano che faceva nascere un progetto dalla sua sensibilità e la carta era il supporto dove le idee prendevano vita, la vera magia dell’architettura era vedere come dalla carta e dal disegno sorgevano poi progetti magnifici. Oggi con il computer da un lato è tutto più semplice, ma dall’altro si è persa proprio questa spontaneità, questo spirito creativo da artigiano: di sicuro avere uno strumento capace di aiutare il progettista nel creare forme che sarebbero altrimenti impossibili da disegnare a mano libera può rappresentare un qualcosa di innovativo (si veda, ad esempio l’architettura di Frank Ghery) ma a risentirne è proprio la genesi del progetto e la sua evoluzione e a risentirne è anche il delicato rapporto che si viene a creare fra l’uomo e l’architettura, esempio tangibile di questo è stato il confronto fra il Maxxi di Zaha Hadid e il quartiere dell’ Eur progettato durante la dittatura di Mussolini. Nonostante l’aspetto megalitico e titanico delle costruzioni dell’Eur si aveva l’impressioni di trovarsi di fronte ad un sublime quasi Kantiano, capace di affascinare proprio perché fa sentire piccolo l’uomo, al contrario nel Maxxi ho avuto un’impressione quasi di freddezza, di distanza che rendeva la struttura quasi inaccogliente.


A rendere più affascinante i progetti nati dal disegno non è solo la loro (a volte) utopia, ma anche lo studio ed il sacrificio tangibile, i fogli di carta erano quasi impregnati delle fatiche del loro progettista; ma c’è anche un’altra cosa che mi ha colpito particolarmente e che si discosta dalla semplice filosofia progettuale: il tema della memoria.
Ho sempre creduto che, realizzando una costruzione, si lasci un segno tangibile della propria esistenza, così i progetti preliminari su carta che hanno portato alla realizzazione sono testimonianza di un modo di operare, di uno stile che ogni progettista aveva, il digitale annulla tutto questo: i bit sebbene infinitamente replicabili sono in balia dell’evoluzione tecnologica, un formato che oggi si usa largamente potrebbe diventare obsoleto in meno di quindici anni, i progetti digitali sono molto più semplici da perdere (a chi non è mai sparito un documento sul pc?) e soprattutto, non possono minimamente vantare l’artisticità di quegli schizzi e lavitalità che nascondono.

                                                                                           - P.

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