giovedì 14 marzo 2013

Fantascienza e Mitologia, pt.1



Scena: un furgone percorre una strada desolata, accosta, ne scende una ragazza. Si addentra nella sterpaglia a lato della carreggiata, a cercare un posto per fare pipì. Pochi secondi e la tragedia si consuma alle sue spalle, con uno schianto. La ragazza rimane paralizzata. Quando osa voltarsi realizza quello che aveva temuto: il suo fidanzato è sceso a sua volta dal furgone ed è stato investito.
Questa, fuor di metafora, è stata la scena cardine che ha dato origine alla riflessione: quanto peso ha il mondo del mito nell’attuale cinema di fantascienza?
Volendo porla in maniera magniloquente, è come un filo conduttore che parte dall’antichità e si riversa nei nostri giorni. In fondo, le tematiche, le idee, le situazioni, l’umanità in sé, sono sempre le stesse da millenni, è solo l’abito che cambia.

Se coi miti avevamo, un po’ come le parabole evangeliche, esempi edificanti, volti appunto ad educare o storie senza un’origine certa create per spiegarsi fatti altrimenti incomprensibili, uno sguardo al passato che serviva per dare una legittimazione alla vita stessa, nella fantascienza la situazione è uguale e contraria, con l’unica differenza che la tensione è, almeno nella maggior parte dei casi, al futuro. Non ce ne vogliano i detrattori, ma dietro ogni opera sci-fi e ogni mito che si rispetti c’è, anche in piccola parte, un velato avvertimento, un appello implicito allo spettatore a non ripetere gli stessi errori che vengono presentati, e questo a prescindere che si stia mostrando una guerra atomica di dimensioni planetarie, o una maga innamorata che fa a pezzi i figli per vendicarsi del marito fedifrago.

Tornando alla scena presentata inizialmente, tratta dal film Womb, il paragone è più una strizzatina d’occhio: la ragazza che non si vuole voltare per non affrontare la realtà appare come Orfeo alle porte dell’Ade, che, per portare in salvo la sua amata morta, deve scortarla fuori dall’Oltretomba senza voltarsi a guardarla. A prescindere dalla versione del mito a cui fare fede, e quindi a prescindere dal motivo, Orfeo si volta e la perde per sempre. Ora, è stato lo stesso Benedek Fliegauf, regista del film, a paragonare la storia a quella del mito, ma la vicenda è effettivamente simile: due ragazzi si ritrovano dopo anni, e riprendono la loro tenera storia d’amore, fino alla morte del ragazzo per via di un incidente; la sua fidanzata decide allora di partorire il suo clone, con conseguenze immaginabili.
Orfeo ed Euridice
Orfeo, sentendosi in colpa per aver causato la morte di Euridice, discende vivo nell’Ade (che, a dirla tutta, nei miti sembra più popolato da vivi che da morti, vista la quantità di eroi ivi scesi per questo o quel motivo) . Rebecca, la protagonista del film, decide invece di farsi madre del suo Tommy, e qui scatta la domanda: lo fa per riaverlo indietro come persona o come amante? E qui individuiamo il primo sacrificio, essendo la donna costretta poi a condividere con un’altra l’amato, il quale ovviamente è all’oscuro di tutto. Vediamo infatti la madre/fidanzata che, sebbene non presenti segni di invecchiamento (essendo interpretata sempre dalla stessa Eva Green) , pare spegnersi di giorno in giorno via via che il suo bambino cresce e diventa un uomo. Un invecchiamento tutto mentale, reso nella sempre più debole vitalità della donna, che alla fine non fa che dormire tutto il giorno, alla sua espressione, che da compiaciuta che era mentre osservava crescere il suo bambino, diventa totalmente distaccata dal mondo terreno una volta che questi è adulto. Un’insostenibile consapevolezza di aver tentato contro l’opinione di tutti e aver fallito, comprendendo solo alla fine che il suo gesto è stato una mera, egoistica follia della scienza.

Rebecca non potrà più avere Tommy come amante ma, al massimo, come figlio. Anche Orfeo non potrà più avere la sua Euridice viva e felice come una volta, dopo che questa ha conosciuto l’eterno buio infernale, come ha già fatto notare Cesare Pavese, secondo il quale il mitico cantore si volta di proposito, avendo compreso come l’amata sia simbolo di un passato felice ma irraggiungibile, paradossalmente lo stesso motivo per cui è riuscito a commuovere la regina dell’Inferno, Persefone, facendole ricordare la sua primavera sulla terra e strappandole il permesso di portare via Euridice. Ella sembra così avere, per un breve lasso di tempo, l’impressione di venire nuovamente al mondo, di lasciare quell’utero inconsueto che era l’Inferno, ma verrà definitivamente condannata, appena a un passo dalla soglia che segnava la differenza tra la vita e la morte.

Lasciami entrare
Parimenti, nella cittadina senza nome in cui si muovono i due protagonisti del film (e pochi altri) , si ha l’impressione di vivere dentro una gelida placenta. Effettivamente è l’unica location della pellicola, come l’utero è l’unico ambiente che il bambino conosce fino alla nascita. Amplissime panoramiche paesaggistiche di ambienti marini riempiono il film, col colore del mare che riflette quello del cielo, nuvoloso, sereno, tempestoso, a seconda dell’umore. In effetti è più il paesaggio che parla rispetto all’azione, più le espressioni del viso rispetto ai dialoghi. Il regista sforna, insomma, un’opera prettamente estetica, puntando sull’impatto visivo e lasciando le implicazioni di trama e contenuti semplicemente accennati, lasciandoli indovinare. Un processo simile si è visto in Lasciami entrare, di Tomas Alfredson, in cui l’azione è rarefatta e le riprese statiche. Tra l’altro, l’horror svedese condivide col film di Fliegauf i paesaggi vuoti e freddi, catartici.

Stalker
A dirla tutta, parlare di fantascienza riguardo a Womb sembra strano, essendo totalmente privo di effetti speciali, per l’unica ragione che non servono. Come abbiamo detto, non è mostrato nulla al di fuori delle conseguenze delle azioni, a discapito delle azioni stesse, le quali, al massimo, sono mostrate per brevissimi istanti. Una scelta che lo accomuna al Tarkowsky di Stalker, al limite tra fantascienza vera e propria e dramma in senso stretto, dramma che ricorre in un altro riferimento importante, quello ai monstra di senechiana memoria, di cui uno in particolare, l’Edipo, ci interessa da vicino.

Edipo accecato accanto al cadavere di Giocasta
Nel dramma del poeta latino, così come nel mito, assistiamo a un’escalation riguardo la presa di coscienza del misfatto, che termina con l’autopunizione dei due amanti incestuosi, così come nella pellicola vediamo una serie di piccoli indizi che il redivivo Tommy (il quale, inspiegabilmente, ha memorie della sua vita precedente) non si spiega e che, una volta connessi, lo portano a una reazione imprevedibile. E’ una mostruosità (un monstrum, appunto) , come spesso accade di natura passionale, che di norma una delle due parti caldeggia e l’altra aborrisce: proprio come succede con Ippolito e la sua matrigna Fedra, che cerca di sedurlo, come Medea che uccide i suoi bambini innocenti per vendetta, come Atreo che serve al fratello le carni dei suoi figli.
Dopotutto è l’essere umano a essere coacervo e fautore di orrori, anche solo involontariamente, o peggio, pensando di agire a fin di bene o per un semplice tornaconto personale.
Orfeo ed Edipo si pongono in essere come due infelici paladini agli antipodi: mentre uno riesce a incantare uomini e bestie con solo la potenza della sua voce, una poeticità portata ai massimi livelli, una sorta di benedetto dagli Dei che comunque termina la sua vita in una serie di fallimenti di cui pare semplicemente la vittima, l’altro sembra causare e poi rifuggire un orrore dietro l’altro, marchiato alla nascita da una maledizione funesta e da cui non si può scappare.


Il film, come il mito, è infine una lezione sulle conseguenze di scelte estreme, un tema estremamente attuale. Impossibile non correre col pensiero alle moderne diatribe sull’aborto, sull’inseminazione artificiale, sull’eutanasia, com’è impossibile per l’uomo liberarsi dalla domanda “E se fosse andata in un altro modo?” . La fantascienza cinematografica offre una soluzione di comodo, tutta in celluloide. 

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