Scena: un furgone percorre una strada desolata, accosta, ne
scende una ragazza. Si addentra nella sterpaglia a lato della carreggiata, a
cercare un posto per fare pipì. Pochi secondi e la tragedia si consuma alle sue
spalle, con uno schianto. La ragazza rimane paralizzata. Quando osa voltarsi
realizza quello che aveva temuto: il suo fidanzato è sceso a sua volta dal
furgone ed è stato investito.
Questa, fuor di metafora, è stata la scena cardine che ha
dato origine alla riflessione: quanto peso ha il mondo del mito nell’attuale
cinema di fantascienza?
Volendo porla in maniera magniloquente, è come un filo
conduttore che parte dall’antichità e si riversa nei nostri giorni. In fondo,
le tematiche, le idee, le situazioni, l’umanità in sé, sono sempre le stesse da
millenni, è solo l’abito che cambia.
Se coi miti avevamo, un po’ come le parabole evangeliche, esempi
edificanti, volti appunto ad educare o storie senza un’origine certa create per
spiegarsi fatti altrimenti incomprensibili, uno sguardo al passato che serviva
per dare una legittimazione alla vita stessa, nella fantascienza la situazione
è uguale e contraria, con l’unica differenza che la tensione è, almeno nella
maggior parte dei casi, al futuro. Non ce ne vogliano i detrattori, ma dietro
ogni opera sci-fi e ogni mito che si rispetti c’è, anche in piccola parte, un velato
avvertimento, un appello implicito allo spettatore a non ripetere gli stessi
errori che vengono presentati, e questo a prescindere che si stia mostrando una
guerra atomica di dimensioni planetarie, o una maga innamorata che fa a pezzi i
figli per vendicarsi del marito fedifrago.
Tornando alla scena presentata inizialmente, tratta dal film
Womb, il paragone è più una
strizzatina d’occhio: la ragazza che non si vuole voltare per non affrontare la
realtà appare come Orfeo alle porte dell’Ade, che, per portare in salvo la sua
amata morta, deve scortarla fuori dall’Oltretomba senza voltarsi a guardarla. A
prescindere dalla versione del mito a cui fare fede, e quindi a prescindere dal
motivo, Orfeo si volta e la perde per sempre. Ora, è stato lo stesso Benedek
Fliegauf, regista del film, a paragonare la storia a quella del mito, ma la
vicenda è effettivamente simile: due ragazzi si ritrovano dopo anni, e riprendono
la loro tenera storia d’amore, fino alla morte del ragazzo per via di un
incidente; la sua fidanzata decide allora di partorire il suo clone, con
conseguenze immaginabili.
Orfeo ed Euridice |
Orfeo, sentendosi in colpa per aver causato la morte di
Euridice, discende vivo nell’Ade (che, a dirla tutta, nei miti sembra più
popolato da vivi che da morti, vista la quantità di eroi ivi scesi per questo o
quel motivo) . Rebecca, la protagonista del film, decide invece di farsi madre
del suo Tommy, e qui scatta la domanda: lo fa per riaverlo indietro come
persona o come amante? E qui individuiamo il primo sacrificio, essendo la donna
costretta poi a condividere con un’altra l’amato, il quale ovviamente è all’oscuro
di tutto. Vediamo infatti la madre/fidanzata che, sebbene non presenti segni di
invecchiamento (essendo interpretata sempre dalla stessa Eva Green) , pare
spegnersi di giorno in giorno via via che il suo bambino cresce e diventa un
uomo. Un invecchiamento tutto mentale, reso nella sempre più debole vitalità
della donna, che alla fine non fa che dormire tutto il giorno, alla sua
espressione, che da compiaciuta che era mentre osservava crescere il suo
bambino, diventa totalmente distaccata dal mondo terreno una volta che questi è
adulto. Un’insostenibile consapevolezza di aver tentato contro l’opinione di
tutti e aver fallito, comprendendo solo alla fine che il suo gesto è stato una
mera, egoistica follia della scienza.
Rebecca non potrà più avere Tommy come amante ma, al
massimo, come figlio. Anche Orfeo non potrà più avere la sua Euridice viva e
felice come una volta, dopo che questa ha conosciuto l’eterno buio infernale,
come ha già fatto notare Cesare Pavese, secondo il quale il mitico cantore si
volta di proposito, avendo compreso come l’amata sia simbolo di un passato
felice ma irraggiungibile, paradossalmente lo stesso motivo per cui è riuscito
a commuovere la regina dell’Inferno, Persefone, facendole ricordare la sua
primavera sulla terra e strappandole il permesso di portare via Euridice. Ella
sembra così avere, per un breve lasso di tempo, l’impressione di venire
nuovamente al mondo, di lasciare quell’utero inconsueto che era l’Inferno, ma
verrà definitivamente condannata, appena a un passo dalla soglia che segnava la
differenza tra la vita e la morte.
Lasciami entrare |
Parimenti, nella cittadina senza nome in cui si muovono i
due protagonisti del film (e pochi altri) , si ha l’impressione di vivere
dentro una gelida placenta. Effettivamente è l’unica location della pellicola,
come l’utero è l’unico ambiente che il bambino conosce fino alla nascita.
Amplissime panoramiche paesaggistiche di ambienti marini riempiono il film, col
colore del mare che riflette quello del cielo, nuvoloso, sereno, tempestoso, a
seconda dell’umore. In effetti è più il paesaggio che parla rispetto all’azione,
più le espressioni del viso rispetto ai dialoghi. Il regista sforna, insomma,
un’opera prettamente estetica, puntando sull’impatto visivo e lasciando le
implicazioni di trama e contenuti semplicemente accennati, lasciandoli indovinare.
Un processo simile si è visto in Lasciami entrare, di Tomas Alfredson, in cui l’azione
è rarefatta e le riprese statiche. Tra l’altro, l’horror svedese condivide col
film di Fliegauf i paesaggi vuoti e freddi, catartici.
Stalker |
A dirla tutta, parlare di fantascienza riguardo a Womb
sembra strano, essendo totalmente privo di effetti speciali, per l’unica
ragione che non servono. Come abbiamo detto, non è mostrato nulla al di fuori
delle conseguenze delle azioni, a discapito delle azioni stesse, le quali, al
massimo, sono mostrate per brevissimi istanti. Una scelta che lo accomuna al Tarkowsky
di Stalker, al limite tra fantascienza vera e propria e dramma in senso stretto,
dramma che ricorre in un altro riferimento importante, quello ai monstra di
senechiana memoria, di cui uno in particolare, l’Edipo, ci interessa da vicino.
Edipo accecato accanto al cadavere di Giocasta |
Nel dramma del poeta latino, così come nel mito, assistiamo
a un’escalation riguardo la presa di coscienza del misfatto, che termina con l’autopunizione
dei due amanti incestuosi, così come nella pellicola vediamo una serie di
piccoli indizi che il redivivo Tommy (il quale, inspiegabilmente, ha memorie
della sua vita precedente) non si spiega e che, una volta connessi, lo portano
a una reazione imprevedibile. E’ una mostruosità (un monstrum, appunto) , come
spesso accade di natura passionale, che di norma una delle due parti caldeggia
e l’altra aborrisce: proprio come succede con Ippolito e la sua matrigna Fedra,
che cerca di sedurlo, come Medea che uccide i suoi bambini innocenti per
vendetta, come Atreo che serve al fratello le carni dei suoi figli.
Dopotutto è l’essere umano a essere coacervo e fautore di
orrori, anche solo involontariamente, o peggio, pensando di agire a fin di bene
o per un semplice tornaconto personale.
Orfeo ed Edipo si pongono in essere come due infelici
paladini agli antipodi: mentre uno riesce a incantare uomini e bestie con solo
la potenza della sua voce, una poeticità portata ai massimi livelli, una sorta
di benedetto dagli Dei che comunque termina la sua vita in una serie di fallimenti
di cui pare semplicemente la vittima, l’altro sembra causare e poi rifuggire un
orrore dietro l’altro, marchiato alla nascita da una maledizione funesta e da
cui non si può scappare.
Il film, come il mito, è infine una lezione sulle
conseguenze di scelte estreme, un tema estremamente attuale. Impossibile non
correre col pensiero alle moderne diatribe sull’aborto, sull’inseminazione
artificiale, sull’eutanasia, com’è impossibile per l’uomo liberarsi dalla domanda
“E se fosse andata in un altro modo?” . La fantascienza cinematografica offre una
soluzione di comodo, tutta in celluloide.
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